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Tony Joe White

Tony Joe White
Mendrisio Estfest 30.06.2006

Questa sera Tony Joe White è rimasto inghiottito dalla palude e noi con lui pur nella algida e linda Svizzera italiana, versione in miniatura di ciò che il Bel Paese non sarà mai.

L’uomo di Oak Grove, Louisiana, dagli occhi azzurri come il cielo sopra di noi nella fresca serata estiva qui, in una impersonale piazza, cuore di un improbabile centro commercial di Mendrisio, non saprà mai dell’inferno che esiste a pochi chilometri, across the borderline, dell’Italia e dei suoi mondiali di calcio, delle sue mille elezioni in un anno, né della poca cultura musicale che ci attanaglia, né del popolo di vacanzieri che hanno trasformato la mia autostrada quotidiana in una maledetta Highway to Hell.

Lui, 63 ani di cui almeno 40 passati a macinare successi che si chiamano “Polk Salad Annie”, “Rainy Night in Georgia” fino alla più recente “Steamy Windows“ che, grazie a Tina Turner, fece due o tre volte il giro del mondo, è infatti troppo impegnato stasera a tirar fuori il ginocchio dal pantano in cui si è cacciato, e noi con lui.
E’ tutta colpa del suo swamp rock torrido ed umido come le trecento fottutissime miglia che mi separano dal mio ritorno a casa.
E tutto in una sola sera per colpa di chi ? del grande Tony Joe White.

Il suo distorsore, acquistato a Denmark Street a Londra nel 1968 e che stasera non vuol proprio andare (fino a che qualcuno non glielo ripara con un semplice saldatore!), si chiama “swamp box”, il suo stile chitarristico polpastrello e dita, (senza plettro) mi dirà, dopo i 50 minuti di sudore puzzolente e il settimo bicchiere di rosso, si chiama “womper stomper”.
La sua unica fede, il “groove”.

Tutto ciò che suona e canta o declama con una voce che pare un siluro in partenza, a metà strada fra il country e il blues ma nel nome di un cantautorato alto e melodicamente ineccepibile, farebbe gola a molti, dai White Stripes ai 20/20, dai Black Keys a Tom Waits.

Solo lui però è e si chiama Tony Joe White, la punta opposta a Dan Penn nello schieramento tattico, unico e irriproponibile dopo di loro, del Country Got Soul. E tenere testa a un genio della melodia come Dan, confesserà nel camerino sorvegliato da una guardia del servizio civile svizzero (!), non è uno scherzo. E via con il settimo brindisi.

Gli svizzeri, pur volenterosi, non hanno capito che sia accaduto : White, serrato nella morsa dell’etno jazz, da una parte, e della bossa nova di Jorge Ben Jor dopo di lui – mai visto serata così male assortita – ha stretto i denti come quando il segnale stradele ti indica un distributore di benzina a 150 miglia di distanza e tu sei in riserva.

Tony Joe allora, cappellaccio da spaventapasseri calato sugli occhi, ha spinto con quanta più forza aveva sul vecchio pedale wha wha Cry Baby e ha cominciato a urlare la solitudine del lonesome southern man away from home al vento, mischiando storie di murders, money, motels and madness, con cui ci ha deliziato per 45 minuti, alla realtà che ci circondava.

Si sono susseguite canzoni vecchie e nuove fino a quelle del prossimo disco che verrà pubblicato in settembre e che vede la partecipazione di Eric Clapton, J.J. Cale, Mark Knopfler e molti altri ancora. Tutti nomi che devono tantissimo a lui.

Tony Joe White si è rivelato come una apparizione portando con sé un po’ di Mississippi’s muddy waters e molta umanità. Se avesse potuto questa notte sarebbe ripartito con noi pur di non lasciarci guidare da soli.
E se le strade della vita musica ci hanno diviso, quelle della musica ci terranno uniti ancora per molto.


Ernesto de Pascale

foto Marco Sestito

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