. Ed Harcourt - The Beautiful Lie
Ed Harcourt - The Beautiful Lie
(Heavenly/Emi)
www.edharcourt.com

Lushious super intense mervellouse melodrammatic 5th album by england’s best kept singer songwriter in a league of his own. Almost perfect

I critici inglesi di musica pop in una attività che ha le radici negli anni cinquanta hanno insegnato al resto del mondo non solo come si scrive la critica musicale ( lo fanno da sempre molto meglio del 95 per cento dei critici ) ma anche come creare parti e controparti, amori ed odio. Questa avventura, che negli anni del punk prima e del brit pop poi, ha avuto i propri zenith non si è mai sopita e ci sono artisti, specialmente quelli dotati di grande talento, ch ne soffrono più di altri. E’ il caso di ed Harcourt, cinque album in sei ani, una scrittura agrodolce melanconica e carica di significati che deve molto a Jeff Buckley, Tom Waits, almeno quanto deve a Burt Bacharach, Jimmy Webb, Fredd Nillsonn.
Prendete il suo nuovo “The Beautiful lie “: stroncato senza speranza da Uncut, viene innalzato al settimo cielo dalla rivista concorrente Mojo. L’unico che ci rimette in questa diatriba è proprio l’artista che ha prodotto un disco ricco di sfumature che, neanche troppo implicitamente, sottolineano un lungo e paziente lavoro di arrangiamenti,studi, missaggi, e prima ancora scrittura, prove, idee gettate vie, dubbi mai risolti e che le recensioni non aiuteranno certo a risolvere.
Come sempre la verità sta nel mezzo. Così, sperando che i lettori di Uncut non snobbino Harcourt perché stroncato e quelli di Mojo non lo snobbino per la stucchevolezza della recensione, a noi non resta dire che harcourt ha compiuto un altro passo avanti verso la propria acquizione di una definitiva originalità.
La sua voce, un po’ rotta dalla raucedine e della emozione, il falsetto incerto ma affettuoso, il fraseggiare non convenzionale declinati con un disco dalla forte ricerca sonora fanno di “The beautiful lie “ un bel disco da conservare almeno fino al prossimo autunno per rimeterlo sul piato così com’è e vedere l’affeto che fa.
La ricerca, effettuata al novanta per certo con strumenti veri ed acustici e registrati ai ToeRag studio di Londra, luogo per eccellenza del vintage ( James Hunter, The White Stripes ), non è fine a se stessa e viene fuori benissimo in brani semplici e poetici come la solitaria “Late Night Partner “ o nella successiva “ Revolution in the Heart”in cui Ed sfodera un istrionismo morrisseiano fuori dal comune.
Una certa ossessività traspare qua e là, come nella lasciva “Until Tomorrow Then “ che pare cantata dal bancone di un loung bar dal sosia dell’Elvis Costello di “Shipbuilding”. Difficile però dare colpe a Harcourt per tutto ciò perché basta attendere la successiva “Scaterbriane”, canzone popolare dal tono bandistico e beatlesiano con un ritornello da Pub la sera della finale di Coppa, per capire che le nostre erano solo supposizioni.
Onore a Ed che fa quasi tutto da solo insieme al suo fidato braccio destro, Jari Haapalainen che insieme ad Harcourt sta forgiando un bel team di lavoro coadiuvati, sin dal 2003, dal chitarrista Leo Abrahms.
Niente male per un (relativamente ) giovane che fino ad oggi ha potuto contare sull’aiuto di professionisti come Tchad Blake ( nel 2003, produttore di “From Everysphere ) e del supporto incondizionato delle edizioni musicali Emi che, forse più ancora della casa distribuisce ( sempre la Emi, Harcourt incide per la piccola, rampante, Heavenly ) crede a buona ragione nella prolificità del nostro.
Cosa resta di un disco di Harcourt ? Sicuramente un mood, una atmosfera che l’artista fa di tutto affinché l’ascoltatore torni a cercare sul luogo del”delitto” cioè fra i solchi del disco. Ed svolge questa operazione con artigianalità ma grande sapienza.
Altri esempi ? : in “The Pristine Claw” fra rullate di bolero, archi che scivolano giù e chitarre abbaianti alla Marc Ribot, c’è tempo per un tema contrappuntato da un moog e un theramin mentre Ed si intona e canta doppiandosi con vezzosa maliziosità. Oppure “I am the drug“ che pare essere incisa sott’acqua ( come la copertina lascerebbe dedurre ) per la seconda facciata di “atom Heart Mother “ dei Pink Floyd dallo sviluppo armonico tutto lasciato in coda oppure ancora la conclusiva “Good friends are hard to find “ in cui il ragazzo del sussex non nasconde la sua innata misantropia e la propria ansietà per la vita. Lo fa con toni lievemente melodrammatici mentre un piano verticale e un quartetto di archi lo asseconda.
Grande chiusura di un grande album.
Ed Harcourt è davvero un sistema solare da scoprire. Se entrate nella sua arte non ne uscirete più fuori per un bel po’, anche se non doveste ricordarvi una sola nota delle sue canzoni.
Ma l’atmosfera quella no!, quella vi resterà ben dentro.

Ernesto de Pascale

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