Incontro con Aki Kaurismaki
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“Castrophe!” mi dice senza nemmeno guardarmi negli occhi mentre regge in mano un portacenere vuoto.
Nella grande sala in cui fra pochi attimi si terrà la conferenza stampa farsa per piccoli fans in occasione del premio che oggi il regista Aki Kaurismaki, finlandese trapiantato in Portogallo, ritirerà, il suo ansimare taglia il brusio dei presenti. “Queste scale mi hanno ucciso” mi dice con occhi compassionevoli.
Cinque scalini.
E aggiunge “ci facciamo una birra a mezzo?“.
Nel casino generale di giornalisti di provincia e non e astanti Aki ha beccato proprio me on the spot, non ci ha messo un attimo e quando ci siamo guardati finalmente negli occhi, ci siamo subito riconosciuti.
E’ chiaro: usiamo le stesse valvole per illuminare il mondo, la gente, il cuore e accendere i nostri amplificatori. Una veemente e flebile canzone blues langue fra le sue parole e le mie.
“Come potevo dire di no a Fiesole“ mi dice lasciando trasparire una certa soddisfazione di esserci ma un attimo dopo rincara la dose “da questi e li indica con gli occhi non comprerei neanche un macchina usata…”
Alla prima birra e alla terza sigaretta mi pare rinfrancato: certo!, parla di Gesù, di Bressons e Rossellini come se fossero una sola persona ma, in fin dei conti, poco importa. Ci sta solo mostrando le sue doti di sceneggiatore/improvvisatore (“io, una sceneggiatura la scrivo in un weekend lungo poi, quando pubblico il film nelle sale sfido io il pubblico a capire quando ho girato da sano e quando da ubriaco, neanche il cane della Polizia può capirlo “ aveva detto qui e lì prima di oggi) e il suo “Cielo dei Bars” è un posto dove dirimpetto al paradiso (una casa con il back porch) ci sia, non oltre l’altro lato della strada, un bar, almeno uno.
La conferenza fila avanti, con le solite domande dei giornalisti che sono autoanalisi di un compitino appiccicato in testa e il portare a termine quell’esercizio di autocompiacimento che differenzia lo spettatore dal critico ma, alla seconda birra ed alla quinta sigaretta, è chiaro che Aki è altrove. Si parla di calcio e ogni tanto, per buona norma, il regista tira fuori qualche grande concetto, fino a che, probabilmente annoiato più del sindaco della tiritera la chiude perentoriamente . “certo dice rivolgendosi agli organizzatori del festival siete messi bene se per celebrare il vostro quarantennale siete dovuti andare a rovistare nelle discariche“ dice con espresso riferimento al setting de “L’uomo senza passato” del 2002. Qualcuno capisce, molti ridono pensando a una battuta ma l’effetto cercato è stato trovato. Questione di un attimo e tutti sono in libera uscita.
Veniamo uno incontro all’altro.
“Catastrophe!” dico io a voce bassa mentre lui mi allunga la bottiglia di birra. “So far so good” controbatte con l’aria furba di chi ne ha viste scorrere di storie di vita pubblica così scadenti. E aggiunge : “Crap” mentre mi firma una pagina del catalogo a lui dedicato con poche e semplici parole “with friedship, Aki K.“.
Oggi, di amicizia, Aki Kaurismaki pare doverne aver proprio tanto bisogno.
Hold on, brother, hold on.
Ernesto de Pascale
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Pubblichiamo in esclusiva per Il Popolo del blues il saggio di Ernesto de Pascale sulla musica nel cinema del regista finlandese Aki Kaurismaki per gentile concessione del Premio Fiesole e dell’Unione Critici Cinematografici della Toscana
Negli anni novanta sono stato manager, produttore ed autore dell’ultimo vero gruppo di rock & roll italiano, Dennis & the Jets.
Avevamo modellato tutta l’immagine e molti dei contenuti del gruppo su quelli dei Leningrad Cowboys, “la peggiore delle band musicali rock del mondo”, portati sugli schermi nel 1989 dall’ideatore del progetto, il regista Aki Kaurismaki, con “ Leningrad Cowboys go America” la cui eco era giunta a noi qualche tempo prima.
Con i ciuffettoni condividevamo lo stesso melodramma e un romanzo popolare non dissimile l’un dall’altro, quello di due paesi di agricoltori diventati industriali senza saperlo essere, la stessa comicità sfrontata, le stesse aspettative, le stesse disperazioni.
Con la differenza che alle spalle del nostro vissuto non vi era il tango finlandese, musica popolare nazionale ancora adesso lassù, né il loro rigore stilistico, né il loro altissimo rispetto per la musica, ma la canzone ritmico melodica un po’ caciarona e sfasciata italiana degli anni cinquanta e sessanta in cerca di alibi per la propria sopravvivenza!
Dopo poco la figura del regista mi iniziò a intrigare più di quella del gruppo di The Leningrad Cowboys.
Fra le molte istanze e i molti spunti di riflessione l’utilizzo della musica fu quello che, per ovvi motivi, di più mi colpì, affascinandomi.
Passai molto tempo ad analizzare i film del regista finlandese e a studiarne uno per uno i contenuti. Partii da ciò che sentivo più vicino alla musica come la scelta del colore e della fotografia e giunsi, dopo un po’ di tempo, alla conclusione che nei film di Aki Kaurismaki, la musica era (ed è) usata con la stessa logica con cui sono scelte le luci, le scenografie, gli obbiettivi, gli attori.
Una regola ferrea, costante, assolutamente originale.
In anni di lavoro Kaurismaki ha imposto la propria purezza e il proprio stile basato sulla dignità, sull’humor, sulla malinconia e su una buona comprensione del destino umano grazie a un intuito portentoso che egli non cela mai, neanche nelle interviste.
Lo stesso intuito usato dal regista per la realizzazione attenta delle colonna sonora dei suoi film che, partendo da scelte di repertorio ( quello che ha più di 50 anni costa meno…) dimostrano il suo profondo amore per i classici del nostro secolo - classici in tutti gli stili - approdando negli ultimi lavori a territori molto affascinanti, nuovi territori di incroci, senza mai dimenticarsi l’origine.
Film dopo film realizzai che la musica nei film di Kaurismaki sembrava uscire dalla sua collezione privata di oggetti di Antiquariato e Modernariato, dalla sua personale raccolta di Souvenirs del mondo trascorso.
Riflettendo sulla figura di The Leningrad Cowboys, la band che mi aveva in qualche modo fatto conoscere i film di Kaurismaki, pensai che il regista aveva voltato, e con lui il gruppo, la faccia alla rivolta perché essa non è altro che una grande illusione (si veda il tema predominante “Rikos ja rangaistus” “Crime”, ispirato a “Delitto e castigo” di Dostojievsvky, omaggio ai crime movies dei tardi quaranta e denuncia della società vuota). Illusione che Aki voleva lasciarsi dietro le spalle con il suo fare cinema,
Il rock & roll è rivolta? è disperazione?
Kaurismaki, come il Little Willie John di “I need your love so bad”, antico rivale di James Brown, come un novello Gene Vincent o un platinato Billy Fury come un Rè senza corona, aveva perso fiducia nel rock & roll lungo la strada, fiducia in quel rock & roll che per la Finlandia aveva rappresentato il ponte con l’occidente per un paese di cinque milioni di abitanti che è stretto nella morsa delle due culture a confronto.
Non è un caso che proprio a Gene Vincent e a Billy Fury erano stati dedicati “Stardust” (regia Michael Apted, 1974 con David Essex e Keith Moon) e “That’ll Be the day”( regia di Claude Whatham con David Essex ), due piccoli film inglesi di denuncia dei primi settanta modellati intorno allo stesso romanzo popolare caro a Kaurismaki anni dopo.
La soluzione si era però mostrata chiara all’orizzonte, e i film del regista ne erano diventati, uno dopo l’altro, lampante dimostrazione: la musica, o meglio, la canzone, è sempre popolare. I poveri sono uniti (dalla canzone), i ricchi sono violenti, per loro la canzone è violenza. E disperazione.
Kaurismaki seguendo un principio più volte espresso ( “i film o sono fatti bene o sono fatti male “) aveva lentamente lasciato dietro le spalle la goliardia di The Leningrad Cowboys per andar semplicemente oltre.
The Leningrad Cowboys lo meraviglieranno però ancora una volta re inventandosi nel nome di “give the people what they want” giorno dopo giorno fino alla reunion del 1993 che esplode nell’esilarante “ Total BalalaiKa Show”, un evento “definitivo” che qualcuno, indicò come “la fine assoluta della guerra fredda on location: la Piazza Rossa antistante il Cremino”.
La reunion generò un ultimo film insieme, “The Leningrad Cowboys meet Moses “ del 1994, apertamente politico, con cui Kaurismaki chiuse per sempre con il mito dell’America e della musica da lì proveniente.
Quella stessa musica la poteva, in fin dei conti, trovare vicino casa.
Il regista puntava a strade più complesse e profonde.
Di The Leningrad Cowboys avremmo risentito parlare solo nel maggio 2006 con la pubblicazione di “Zombi’s Paradise “; l’indirizzo della loro attuale residenza, insomma!
La Vodafone memore della loro fascinazione cinematografica ha scelto la loro versione di “Happy together” , un brano sixties dei californiani The Turtles, per la propria campagna estiva.
Qualcuno ha parlato di un “suggerimento”della finlandese Nokia per la scelta del jingle…
Aki Kaurismaki, il “produttore di assurdità d’occasioni” come lo avevano intanto definito gli inglesi dopo “ I hired a Contract killer”, del 1990, “Ho affittato un Killer”, un film in cui il regista acquisisce sicurezza e che vanta un bel cameo di Joe Strummer in cui si ricrea l’atmosfera degli esordi di Joe nei pub come frontman di The 101’ers, era passato alla ricerca di una crepuscolarità che “Kauas Pilvet Karkaavat” (nuvole in viaggio) del 1996 e “Juha“ del 1999 avrebbero espresso perfettamente.
Kaurismaki, grazie alla musica era cresciuto in maniera esponenziale per temi e per cifra stilistica. Aki stava trovando la sua morale personale e il cinema era diventato il mezzo per perseguirla. La colonna sonora di suoi film era, adesso, a pieno titolo, la colonna sonora della sua vita.
Una indecifrabile rarefazione si stava delineando infatti nelle azioni dei due film citati.
Grazie anche al fidato direttore della fotografia di sempre, Timo Salminem, Kaurismaki pareva dirci che la vita scorre, vada come vada, secondo un filosofia cara, per l’appunto, alle classe meno abbienti.
Era allora la scelta musicale sempre più ricca e sfaccettata ad emozionare e a creare scalini inattesi nella narrazione.
Il tema predominante del cinema di Kaurismaki era infatti diventato sociale, la musicale era diventata sociale, prepotentemente sociale, del tutto sociale!.
Addirittura, in “Kauas Pilvet Karkaavat”, per la realizzazione del lieto fine Aki faceva appello al tema sociale con la resurrezione di un ideale (il vecchio team del ristorante demodé acquistato dai padroni di un fast food si riunisce in una esperienza finale, vincente). In “Kauas Pilvet Karkaavat” tutto si diradava in un concertato immobilismo da foto tessera rotto solo da una colonna di musica e suoni usati come interplay sempre meno contrastato fra storia e immagine.
Il regista era andato bel oltre se stesso con questi due film; dal colore alla Edward Hopper degli interni di “Nuvole in viaggio” al bianco e nero finlandese, della neve e del buio di “Juha” il viaggio era stato più breve del previsto, come lo era stato l’allontanarsi dal rock & roll anglofono per scegliere quello locale, derivativo quanto si vuole ma proprio come quello del nostro Celentano irripetibile altrove.
In “Juha” Kaurismaki però aveva fatto ancora si più: in una sorta di immenso omaggio a Charlie Chaplin, aveva toccato lo Zenith della rarefazione col mutismo degli attori ( ma non della sonorizzazione, che va di pari passo con la partitura musicale e la scena) mantenendo però tutti i suoi stilemi, alcuni dei quali ci riportano a tematiche care anche al neorealismo italiano.
Una prevedibilità voluta della storia del film è segno di una purezza che la scelta delle musiche eleva.
Così mentre “Juha” va contro corrente - venne lanciato dall’ufficio stampa come “l’ultimo film muto del ventesimo secolo“ - anche la musica esplora territori fino ad allora inesplorati per Kaurismaki, in una sinfonia-suite che è un pò il Tubular Bells del regista finlandese, con la eco di un lontano prog pomp kitsch tanto in voga nel nord Europa nei primi settanta pre ABBA.
Spiritualità del suono ? può darsi. Di certo tutto quello che una canzone di tre minuti non può dare viene esaminato e sviscerato in “Juha” grazie alla sua caratteristica musicale quasi concettuale. L’autore delle musiche, Anssi Tikanmaki, pare saperlo e affonda il colpo.
La somma delle musiche usate dal regista in “Juha” crea una nuova partitura. Non sono più i singoli brani musicali accostati alla sequenza filmica a dare un effetto ma la somma di essi a crearne uno nuovo.
Il regista, che raramente usa un verso o un ritornello di una canzone ma la stessa per intero, in “Juha”, per la natura stessa del film, estremizza la metodologia. Qui c’è solo la musica ad approfondire la nostra connessione di pubblico con i personaggi del film.
In” “Kauas Pilvet Karkaavat” era già avvenuto qualcosa di simile, a dire il vero: le canzoni suonate durante la serata finale di apertura del ristorante sono toccanti e Kaurismaki le rende ancora più efficaci alternando la macchina da presa dalla clientela del ristorante al personale dello stesso.
Spiritualità del montaggio? perché no! Di certo il desiderio tramite le canzoni scelte e la tecnica adottata di sottolineare un altro tema centrale della poetica cinematografica del regista finlandese: la vittimizzazione della classe lavoratrice nella mani del capitalismo indiscriminato (i futuri padroni del ristorante che lo tramuteranno in un fast food).
Ci sono momenti nei film di Aki Kaurismaki in cui ci si aspetterebbe di ascoltare la musica di Bernard Hermann, il compositore preferito di Alfred Hitchcock. Non è un caso che nel corso della sua venticinquennale carriera il regista finlandese abbia fatto uso di musiche di alcuni dei compositori classici preferiti da Hermann.
Eccone gli esempi: Dmitrij Sostakovic in “Rikos ja rangaistus”, “Delitto e Castigo” del 1983, ”Hamlet liikemaailmassa”, “Amleto si mette in affari” del 1987, “Ariel” del 1988, in “Likaiset kadet”, “ Le mani sporche” del 1989 ma soprattutto Petr I. Cajikosviki in “Ariel” e in “Tulitkkutehtaan tytto”, ”La fiammiferaia” del 1990 i cui primi venticinque minuti si svolgono nella più completa essenza di dialoghi, “ Boheemielamaa”, “Vita da Boheme”, del 1992, “Pida huivista kiinni, Tatjana”, “Tatjana” del 1994, “Kauas Pilvet Karkaavat”, ”Nuvole in viaggio” del 1996.
Bernard Hermann avrebbe esultato.
Sull’onda di una serie di mutamenti affidati anche alla musica si arriva a “ Mies vailla menneisyytta”, L’uomo senza passato, del 2002, “puro genere Kaurismaki” come lo definì il critico Lauri Timonen all’uscita nelle sale.
Tutto in “Mies vailla menneisyytta” è suono; dai calci che il protagonista prende fino ai bastoni battuti dai poveri che, uniti in una sera di festa, allontano i balordi assassini passanti nella sequenza pre conclusiva.
La musica compie un ulteriore salto di qualità: non è mai sottofondo ma organica alla storia dall’inizio alla fine definendone l’ambito geo sociale: dalla radio maneggiata dai due bambini (la stessa da cui Kaurismaki alla loro età ascoltava in onde medie The Voice of America a notte fonda?) al fisarmonicista alle prese con la musica popolare fino alle dame di carità con il loro coro tradizionale domenicale - perfetto controaltare al più importante nuovo gruppo vocale femminile finlandese sulle scene oggi, le Varttina, un muro di estrogeni senza vibrato - la funzione preponderante musicale è creare la cornice di quel gran contenitore di memoria che è il ricordo.
I molti tanghi che si ascoltano durante i 97 minuti del film valgono come dice lo stesso regista - mille dialoghi. Perché la passione del tango esprime sentimenti inesprimibili, ha un aspetto terapeutico, importante nell’unità della comunità dei bassifondi di Helsinki.
E’ un tenero tema quello del regista: vite provenienti da differenti substrati sociali condividono le stesse musiche. Questo tema si interseca con un altro, a lui altrettanto caro e cioè quello dell’accettazione incondizionata degli eventi (appare già in “ Rikos ja rangaistus”, Delitto e Castigo, del 1983) che affiora in “Mies vailla menneisyytta” più trasversalmente ma sottolineato da quella felicità delle piccole cose che è netta nel film, la stessa che celebrava uno dei primi e più famosi brani di rock & roll scritto in Italia da italiani, “I Ragazzi del Juke Box” (“Le felicità costa un gettone / per i ragazzi del Juke Box“).
Proprio il Juke Box più di ogni altro oggetto è centrale in questo film, più di quanto lo è in altri film di Kaurismaki: in “Mies vailla menneisyytta” il riassemblaggio del Juke Box un atto importante di affermazione, di esistenza, di meccanica delle cose che riprendono a viver.
La scena in cui i protagonisti mangiano silenziosi ma tangibilmente felici intorno al Juke Box che suona “ That Crawling Baby blues” di Blind Lemon Jefferson è quella che Wim Wenders non è mai riuscito a girare in “the Soul of a man “ per spiegare cosa è il Blues per un bianco europeo nato negli anni cinquanta.
Kaurismaki, da parte sua, non ha avuto bisogno di nessun committente che gli chiedesse di esprimere il proprio amore per la buona musica. Lo ha fatto, in tempi non sospetti. Scorsese o non Scorsese.
Insomma, l’esperienza che l’arte ci trasmette passa anche attraverso gli oggetti.
L’esperienza che la voce di Billie Holiday in “Body and soul”, quella di Roy Brown in “Trouble at midnight”, oppure l’esperienza che le canzoni del gruppo beat inglese The Renegades ci trasmette (sono presenti nei film di Kaurismaki con “Cadillac” e “Do the shake” e vennero esportati in Italia direttamente dalla Finlandia sull’onda di quei successi da un giovanissimo Gianni Boncompagni, esotico dj mediterraneo in libera uscita estiva al Nord d’Europea) passa attraverso vetuste fonovaligie, vecchi mobili giradischi con radio, piatti manuali a cinghia, oggetti imperfetti ma funzionanti.
Come gli uomini.
E’ un mondo a valvole quello di Aki Kaurismaki e come le valvole apparentemente freddo, ma, proprio come le valvole quando, accese, si riscaldano, in grado di bruciarti dentro.
A lungo.
Per darti quel calore che la vita spesso ti nega.
Ernesto de Pascale