.


Spike Lee - Black, Brown & Beautiful
by C.Ernesto de Pascale

Durante l’ultimo decennio del diciannovesimo secolo un nuovo genere musicale cominciò ad emergere Nel 1899 lo scrittore Robert Hughes così spiegava le origini del nuovo suono : “… la gente di colore chiama il ballo ritmico “ragging” oppure ”rag”, largamente realizzato strascicando i piedi o battendo gli zoccoli”. Questo ibrido di ritmiche africane e l’introduzione della sincope già praticata da alcuni compositori classici dette vita al ragtime. Il cosiddetto Boogie Woogie, chiamato in quegli anni più semplicemente 16 (sixteen) primo cugino del ragtime, venne abbracciato nei juke joint più malfamati per la sua sinuosità. I due generi si irrobustirono immediatamente grazie agli editori che seppero cogliere i primi grandi compositori ( Joplin, Lamb, Scott ) e alla nascita del cinema muto il pubblicò scoprì quanto forte poteva essere l’ abbinamento fra le rustiche immagini e una musica nera già decisamente caratterizzata.
L’orgoglio nero fa un salto in avanti per trovare i grandi nomi dello spettacolo - nel cinema, nella musica - ma per ognuno di essi le radici continuano ad essere - siano essi Ellington, Parker, Coltrane, John Lee Hooker, Muddy Waters, Sly Stone, Chuck D. - una fonte di risorse inestimabile sia per contenuti che per ispirazione.
Spike Lee ha costruito in trent’anni di carriera il suo credo sui concetti basilari delle radici - c’è il male, il bene, ciò che è giusto, ciò che è sbagliato, c’è un Dio, un diavolo - come per dirci “ da che parte state voi”.
Lee ha usato la musica in questa direzione. Criticato per essere apparso sulle scene come un regista “angry”,”radical“,”militant” quando il sistema tutto cercava mano che quello!, Spike ha fatto tesoro di quell’epoca in cui il punto di vista musicale sovvertiva il cosiddetto mainstream. Spike Lee, unico ed ineguagliato più che mai oggi, è il prodotto del volatile e turbolento ambiente degli anni sessanta, testimone oculare del razzismo come questione globale, dei pregiudizi etnici, del classismo, del nazionalismo fanatico e come una spugna ha incorporato nel suo mondo di celluloide questi temi, sottolineandoli sempre con il più indovinato, chiaro e conciso commento musicale.
Le prese di posizioni e le sue scelte sono state mille miglia lontane da quelle diatribe che per decenni hanno creato tensioni fra bianchi e neri, fra neri ed ebrei.
Lee ha focalizzato la propria espressione su quelle tematiche che sarebbero potute servire alla comunità nera per capire cosa avrebbe potuto fare per aiutare se stessa e sui metodi che avrebbero potuto in qualche modo coinvolgere forze individuali - più che di massa - da altre comunità non nere, per colmare il vuoto dell’incomprensione e attraversare il ponte della tolleranza e della condivisone.
Dove le parole, le immagini, le storie parevano non bastare più, Lee si è fatto aiutare dalla musica. E la musica non lo ha tradito ed è venuta in suo aiuto.

Black, Brown & Beautiful

Prendendo spunto da un vecchio album dell’arrangiatore e sassofonista di colore Oliver Nelson, possiamo raccogliere le tematiche dell’universo musicale che gravita intorno al cinema di Spike Lee, in questo titolo e nelle sue tre sottili distinzioni tematiche, per affermare con chiarezza che il cinema di Spike Lee è l‘asserzione completa della negritudine americana, totalmente riscattata da quella africana.

Black (Mo’Better Blues)
Una delle maggiori ossessioni di Spike Lee da sempre è stata quella di trasporre l’essenza del jazz e della musica nera in genere, sul grande schermo.
Se gli spunti sono tutti documentaristici - “Jazz on a Sunday Afternoon”, del 1958 dedicato a un meraviglioso picnic presso la Casa Bianca dei grandi del jazz oppure il bel “Straight No Chaser” dedicato a Thelonius Monk - l’ossessione per il regista si tramuta in visione. Il John Contrane del film tante volte sognato e mai realizzato si manifesta nel Denzel Washington di “Mo’Better Blues”, un ruolo rifiutato da Brandford Marsalis. “Troppo amico - disse - in quei casi ci vuole gente che sappia cosa sta accadendo su un set!”. Volano i titoli : “A Love Supreme” viene scartato perché la moglie del grande John Coltrane, Alice, non libera i permessi, “Beneath The Underdog” perché troppo criptico e junkie si ispirava alla biografia di Charlie Mingus. Il concetto è però chiaro : mancano i sostegni ma è inutile lamentarsi, i neri sono i primi a non volerne sapere. “ Eppure - afferma - se c’è una bella storia da raccontare è matematicamente impossibile pensare che non verrai ripagato. C’è chi lo pensa - e conclude - ma per me non è così. Mai dire mai!”.
Libertà, libertà, libertà. Una libertà armonicamente ricca e complessa, selvaggia e anarchica, disse qualcuno, ma affezionata, coerente. Era, e lo fu fin da subito, una celebrazione che affermava gli aspetti fin ora descritti. Una specie di cartone animato per gente reale, o, come diceva una canzone di Sly Stone di qualche anno prima : “ A different strokes for different people”.
E - pensò Spike - l’aggressività di quell’impatto musicale e visivo non poteva destare più preoccupazione di quanto l’avesse destata la marcia su Washington di diversi anni prima. Il gruppo misto di attori ( Washington, Snipes, Esposito, Aiello ) interpretava quella indipendenza che il regista cercava di proporre. Tutti suonano, tutti si danno da fare, affinché ognuno potesse dare qualcosa in più alla community descritta. Suonare che oltre a significare “fun”, divertimento, significa anche impulso vitale, attacco politico, violenza, addirittura, in alcuni casi, insulto. Ad una sola condizione: che tutto questo serva per crescere.
Nelson George - autore di “ The Death of Rythm & blues “ - dalle pagine del Village Voice difese strenuamente le scelte di Lee dalle parole denigratorie di quei fratelli che vedevano gli spot prodotti da Spike come un sell out del regista fino a quei così imegnato . “Oggi quest’uomo può vivere senza Hollywood”. L’amico Chuck D. dei Public Enemy rincarò la dose : “But some things i’ll never forget, yeah/ so stop and fetch this shit/ for all the years we looked like clowns/ The Joke is over, smell the smoke from all around/ Burn Hollywood Burn”.


Brown (Bambloozed)
Marrone. Marrone come il colore della terra, delle radici. E una compagnia che si chiama 40 Acres and a Mule, la promessa del presidente a Jefferson a tutti gli americani, quaranta acri di terra marrone e un aratro trascinato da un mulo,alla conquista della proprietà libertà.
Il più marrone dei film di Spike Lee è Bambloozed, film d’impatto digitale ad alta definizione, dove tutto colpisce ed ha la capacità di stupire ma dove un senso di terreno e di appartenenza alla radice nera prevarica tutto il resto. Ad impressionare gli spettatori è sufficiente il semplice impatto visivo. Un susseguirsi rapido di immagini penetranti, incisive, spesso fotografiche. Ora semplicemente descrittive, ora tese a cogliere il particolare, sempre in movimento. L’intensità con cui tutto si sviluppa e arriva allo spettatore è disorientante. Niente è lasciato al caso, ogni fotogramma partecipa al senso del film. Tutto questo accompagnato da una realizzazione tecnica eccellente e grande senso artistico. Un film coraggioso, dove le accuse sono numerose e tutt’altro che velate. Causa scatenante dell’intero meccanismo è la necessità di una televisione non più sull’onda del successo di catturare nuovamente l’attenzione su di sé e far registrare il massimo degli ascolti per sopravvivere alle esigenze di mercato. Di fronte a questo decadono qualsiasi forma di rispetto e qualsiasi tipo di scrupolo. Tutto ciò che serve e conta è una trovata geniale per risollevare le sorti dell’emittente televisiva. La soluzione arriva dalla mente arguta di un giovane autore in carriera: proporre al pubblico un Minstrel Show del nuovo millennio, rivisitando gli show in cui a partire dall’800 i neri ballavano e cantavano con la faccia dipinta per intrattenere il pubblico bianco. Lo spettacolo è perfetto, con la sua capacità di impressionare, stupire e far parlare di sé, e la popolarità in breve tempo raggiunta è altissima. Ma ciò che di più astuto c’è alle spalle di tutto questo è quanto la trovata del Minstrel Show vada a costituire il mezzo perfetto per elaborare le tematiche al centro del film. E’ contro il razzismo e una serie di atteggiamenti irrispettosi e lesivi della dignità che si punta l’indice, ma non sarebbe potuta esistere una soluzione per farlo in maniera più tagliente e polemica di questa. Qualsiasi accusa è riportata alla quotidianità e chi è privato della dignità lo è a unico beneficio del divertimento e della soluzione dei problemi finanziari di chi sta dall’altra parte. Uno Spike Lee sagace, che si espone senza mezzi termini, con la forza di ridicolizzare e graffiare fino in fondo. E a seguito di questo i contenuti esplodono con prorompente incisività. Perché se a farla da padrone sono l’emittente televisiva e relativi il punto di vista è quello di chi subisce e di chi soffre, da questo si parte e questo si pone costantemente in primo piano. Si arriva all’eccesso, si arriva alla violenza, si arriva al perverso ritorcersi delle colpe contro gli stessi fautori del crimine, tutto perché il punto della questione risalti sempre più nitido agli occhi, il tutto caratterizzato dalla scelta di parlare e contestare fino in fondo senza scendere a compromessi. La realtà filtra dall’obbiettivo con impietosa veridicità, agghiacciante, sentenziosa. L’occhio dietro la cinepresa è cinico cronista, ma di quella realtà che si manifesta attraverso i fatti va a cogliere anche gli aspetti minimali. Allontanandosi e osservando il tutto da una prospettiva più ampia si ritrova ancora la mano del maestro, perché anche se il film è incisivo non è mai stridente, anche se c’è bisogno di essere crudi, esserlo non va mai a discapito dell’armonia nell’andamento generale e anche gli aspetti più violenti e d’impatto trovano nella soluzione finale un proprio senso ed equilibrio.
Il critico musicale Greil Marcus riflette e intelligentemente spiega nel suo saggio “Mistery Train” : “ la migliore musica popolare non riflette gli eventi quanto riesca ad assorbirli”.
Il pessimismo di “Bambloozed” non è quella sorta di romanticismo che usualmente troviamo nel rock & roll. Quello è ottimistico più o meno per definizione perché la cultura popolare punta sempre verso “la prossima cosa”, ed è convinta che valga la pena andarci dietro. “Ciò accade - specifica Marcus - perché il rock & roll è legato a quel senso gioioso del tempo e a quella falsa idea che i giovani hanno che la morte non arrivi mai, così come per una televisione o un cinematografo l‘ultimo spettacolo. La cultura pop del pessimismo è, più o meno sempre, una cultura di auto-indulgenza, lasciando al pubblico e all’artista una via di scampo”.
Questo “narcisismo rovesciato” è assente in Spike e in Bambloozed. Quello è un film che fa paura per il suo messaggio, immobile, che butta giù qualsiasi altro film simile realizzato da neri, perché il negativismo che esprime è sufficientemente duro per proporre soluzioni a fronte di commenti altrui che potevano suonare come triviali, alternativi, falsi, che potevano sembrare commenti da risolversi nella propria sfera del personale, o attraverso la politica. A tutto questo Bambloozed si scaglia. Contro.
La leggenda quotidiana comune ci dice che quel che importa è che il cinema porti del divertimento, che porti qualche cosa che non si sa, che non si conosce, che porti un’idea che il domani racchiuda una storia in più. Ma tutto ciò è già accaduto molto tempo fa, al tempo di Lost Hollywood. È allora che entra in gioco Spike Lee: egli parla un verbo, una lingua, batte un tempo, ritma il suo popolo nel pensiero, proprio come aveva fatto, senza l’ausilio della macchina da presa e della musica, Malcom X.
La storia c’è, esiste, la si può raccontare. Ma è stata, tristemente, già raccontata dalla realtà. Il sogno non esiste. La radice è qui, non esiste l’Africa degli antenati. Esiste solo l’America.
America The Beautiful.

Beautiful (Summer of Sam)
“È tutto a ns disposizione! Dipende solo da chi ne vuole di più. Questa l’America, fratello” (Free Sucker City, 2004)

Da quando Spike Lee ha al suo fianco l’autore ed arrangiatore nero Terence Blanchard, un musicista cresciuto al fianco di Wynton Marsalis e dotato di rara sensibilità, un senso di uniformità e di completezza pervade le sue opere cinematografiche sottolineando l’aspetto originale della scrittura di Blanchard, un jazzista assolutamente non convenzionale che ha capito le esigenze di Lee.
Come in Jungle Fever, Cloakers, Sucker Free City più i temi si induriscono più Lee innalza il valore della musica nei suoi film. Il suo fine ultimo è aumentare il rispetto per la bellezza del colore ( e di quella degli attori che sceglie) della pelle. La ricerca della brava gente, di una speranza che scaraventi fuori dai ghetti i neri e supplisca al sogno, è simile a quella di grandi artisti - alcuni musicali - ai quali più volte Lee ha pagato rispetto. Spike alla bellezza formale
ha sostituito il realismo di un popolo che ce la vuole ancora fare. Il gioco del recupero di una commistione di linguaggio attraverso sincronismi e parallelismi fa ancora gola al regista e fa anche gola nel nome della bellezza che sempre più frequentemente manca.
In nome di questa Spike Lee si mette in gioco in uno dei film dove meglio di altri il tono della musica caratterizza la sua filosofia della bellezza nera, persa ma da ritrovare assolutamente.
La morale sarà devastante.
1977. Fa caldo a New York City, molto caldo, troppo caldo per star calmi: le prese di coscienza a vari livelli, sociale, musicale, politico, economico fanno salire la tensione anche nelle vite private. Utilizzando l’ombra del serial killer che terrorizzò realmente New York nel corso della calda estate del 1977
(“Meno male che il serial killer è bianco“ commenta nel film la comunità nera!), Lee crea in “Summer of Sam” un apologia della bellezza nera, usando i principi minimi di sempre - il male, il bene, ciò che è giusto, ciò che è sbagliato, c’è un Dio, un diavolo - ma affida alla musica il compito di linguaggio traghettatore, trasportando lo spettatore nei vari “mondi paralleli” ora acerbi e irriverenti come il ‘CBGB’ S simbolo del nuovo con la new wave dei Talking Heads o lo ‘Studio 54’, che con la sua Disco Music sembra quasi una decadente corte francese pre Rivoluzione con i suoi sfarzi e i suoi ‘freak-chic’ non ancora macerati dalle droghe.
Quella descritta dalla sceneggiatura di Victor Colicchio, Michael Imperioli e da Spike è la realtà tutta americana, tutta urbana, tutta interrazziale in cui si trovano a vivere le loro storie i protagonisti del film.
Chi non ha il ballo, pare dire Spike, non ha niente in mano; il concetto di bello si esprime attraverso il dancefloor. La chiusura della discoteca del quartiere è lo spartiacque nel film che da quel momento prende velocità. Il Ballo è una equazione paritaria.
Se non frequenti i club di East Manhattan non sei un vero punk. E, in quelli, la filosofia della vita bruciata, dei rifiuti di New York, corre parallela a quella dell’estetica del bello.
In “Summer of Sam” Lee vince una delle sue scommesse più complesse: quella di dimostrare che i nuovi neri, quelli born in the fifties per dirla come i Police, sono cresciuti con gli stessi suoni dei bianchi, sono perciò non solo uguali ma addirittura oltre, further, perché li hanno recepiti dai loro osservatori sonori, mischiandosi fra le pieghe delle onde radio della Grande Mela.
Per esprimere questa uguaglianza attraverso la musica in “Summer Of Sam” Lee usa la musica universale ed abrasiva degli inglesi THE WHO, quasi per sottolineare che, pur nella condivisione con i coetanei del miglior rock d‘epoca, un distacco neutrale - The Who sono uno dei gruppi inglesi per eccellenza ! - scorre parallelo anche nelle sue vene.
Nel film, Ritchie è un punk. Ha vissuto a Manhattan. È ormai un “diverso” agli occhi dei suoi ex-amici di borgata che sono pronti a menare le mani a chi ha pestato il loro amico gay, ma che non danno un passaggio al loro ex compagno perché non è più uno di loro. Ritchie ama gli WHO: “Sono i padri del punk” dice emozionato a Ruby, la sua futura donna.
‘Baba O’Riley’ è scelta per passare in rassegna tutti i personaggi e fotografare il loro stato d’animo. Vivono nella “Teenage Wasteland” – la terra desolata dei Teenager – un’espressione che ha il potere di essere universale perché ogni generazione ha avuto, ha ed avrà un luogo simile. È come se il regista, attraverso gli accordi potenti e liberatori della canzone, ci volesse dire che non esiste un’età per provare certi sentimenti e stati d’animo, ma si può star certi che quel momento arriverà nella vita di ciascuno; al libero arbitrio di cattolica memoria, il compito poi di cogliere quel momento, di riconoscerlo, così da non essere “fregato di nuovo” – ‘Wont’ Get Fooled Again’ – come recita l’altra canzone della band inglese inserita nella colonna sonora.
“Won’t Get Fooled Again”, una canzone di ribellione e di emancipazione usata sempre più frequentemente al cinema, nel film celebra la cattura del killer ma anche il pestaggio inutile di Ritchie ad opera dei suoi ex-amici che lo credono il killer. Un tocco di ironia ma anche di rassegnato pessimismo da parte del regista: l’uomo, continuerà a sbagliare e, soprattutto, a farsi fregare, a fregare sé stesso. I disordini causati dal black-out, le morti, i danni passano in secondo piano rispetto alla paura prima ed alla cattura del killer, dopo. In fin di conti, Il leader di The Who, Pete Tonwshend, proprio come Spike Lee era sempre stato affascinato dai mutamenti sociali, dai conflitti generazionali, dal quel vitale senso di incomprensione tra padri e figli, ma anche tra coetanei, da ciò che è formalmente giusto e cosa non. La scelta - come specificato prima - non è casuale ma risponde a un profondo senso di orgoglio e di uguaglianza che da sempre traspare attraverso il cinema di Lee.
Il risultato ? Semplicemente e formalmente beautiful, beautiful nel linguaggio cinematografico, beautiful nella potenza espressiva, secondo i canoni del modismo di cui The Who furono alfieri nella metà degli anni sessanta.
La paura, il panico mediatico, l’intolleranza, non possono durare all’infinito e il rock con i suoi power chords abbatterà questa cortina di paranoia. Alla fine il bello tornerà a splendere.
E qui che il gioco si rovescia.
I buoni hanno vinto. Ma chi sono i buoni? Il mafioso dal volto serafico di Ben Gazzarra con il suo esercito personale? La comunità nera che ha messo a ferro e fuoco la città durante il blackout ma che si sente sollevata perché il killer è un bianco?
L’urlo liberatorio di Roger Daltrey alla fine della canzone “Won’t get Fooled Again “ pare dare speranza, ma l’ultimo verso è illuminante: “Meet the new boss, same as the old boss”, “vai ad incontrare il nuovo capo, tale e quale al vecchio”.
La bellezza, amico, la devi avere dentro se vuoi andare oltre, in fin dei conti sei ancora imprigionato ma potresti essere te stesso il tuo peggior nemico che intralcia la propria libertà.


Ernesto de Pascale
Firenze, 09.06/2007

Hanno collaborato Iacopo Meille e Marco Giani


3 domande a Chuck D.

1.) Quale è il più grande merito di Spike Lee?
Aver sensibilizzato il popolo nero a una più profonda conoscenza del passato del popolo nero e non solo del passato inteso come schiavitù. Di averlo fatto con i soldi del sistema e di averlo con coraggio evidenziando i molti errori e i molti preconcetti dei neri. Il pubblico spettatore è uscito dai cinema di tutto il mondo con una visione diversa, se non migliore, del popolo nero.

2.) individuando il suo ruolo, se alcuno. nel rapporto con l’universo musicale afro americano cosa ha aggiunto Lee?
Ha spolverato via dei luoghi comuni, ha comunicato al mondo il valore positivo globale della musica e ha individuato una generazione - la mia, la sua - che era cresciuta a contatto con il rock, con il sistema esterno bianco. A quel punto il motto di Malcom x di “ fare ciò che era necessario ad ogni costo” ha avuto finalmente una nuova veste. Ha trattato con il mondo esterno, Hollywood, gli studios, il mondo della pubblicità, MTV alzando ogni volta sempre un po’ di più la propria integrità professionale ed imprenditoriale e gestendo la mediazione con intelligenza. Per quel che mi riguarda ha indicato al mondo il significato del Rap, una riserva di freschezza di contenuti che gli europei hanno compreso prima degli americani

3.) Il cinema americano ha altri protagonisti che sappiano comprendere così bene come ha fatto Lee il rapporto fra cultura nera e integrazione artistica?
Sai, si deve essere inventivi e realistici allo stesso tempo e questo è il problema di molti - quasi tutti - nell’industria più che nell’imprenditoria privata. Si deve saltare il cosiddetto hype. Bisogna avere le idee molto chiare : piedi per terra e testa nelle nuvole. Lee ha avuto dalla sua la grande capacità di farcela presto. Se sbagli il primo colpo oggi, sei fuori gioco. Questo è il problema maggiore dell’industria che in quella nera - della musica e non solo - è estremizzato da un ostile velo razziale che ancora non è del tutto caduto. Spike Lee è l’esempio vivente di una frase celebre nell’immaginario del blues. “He’s the Child, Father to the Man”. Fra non molti anni il suo ruolo nel rivitalizzare la tradizione e le radici sarà ancor più indiscussa di quanto lo sia oggi!.

Ernesto de Pascale


tutte le recensioni

Home - Il Popolo del Blues

NEWSLETTER

.
.
eXTReMe Tracker