. | INTERVIEW The Low Anthem
Ben Knox Miller, Jeff Prystowsky e Joice Adams, The Low Anthem, sono passati da essere tre emeriti sconosciuti a nuovi eroi vessillo di quel sound americana che piace moltissimo soprattutto in Gran Bretagna. Steve Lamacq nel suo seguitissimo programma radio sulla BBC li ha definiti “this Year Fleet Foxes”. I tre dicono delle loro composizioni “ Le canzoni più intime sono quelle che rendono più rumorose quelle già lo sono”. Affermazione sibillina ma che spiega anche a chi non li ha mai ascoltati che il senso musicale del trio è tutto a proposito della qualità dinamica di una composizione. Ben Knox Miller, frontman, dice “Jeff ed io giocavamo insieme in una squadra di baseball di bassa lega, nel 2003 decidemmo di mettere insieme un gruppo che però suonava delle innocue e stupide canzoni che mischiavano cantautorato ed elettronica. Quando ci laureammo non c’era molto da fare decidemmo di fare le cose sul serio”. Dopo un piccolissimo esordio, notato da Dave Marsh, incontrano nel magmatico ambiente universitario dell’università di Providence, Rhode Island (uno dei campus più hip d’America da sempre) Jocie Adams, mulitstrumentista dotata di rara sensibilità, musicista proveniente da studi classici che rivolta le idee musicali dei due come un calzino, in grando di suonare tutto, dalla viola al filicorno. “Fu lei - continua Ben Knox -a insegnarci il senso della dinamica, come far sbocciare il caos e come tornare nella più quieta intimità in una sola battuta musicale”. La Adams porta con se un arsenale di strani strumenti e di idee abbinate. Joice convince poi i due ad avere maggiore fiducia nella propria scrittura, sottolineando che non è ciò che suoni ma come lo suoni. “Le nostre canzoni non vengono mai uguali - dice Jeff Prystowsky - le prime volte che suonavamo restavamo stupefatti e anche un po’ preoccupati di non essere in grado di fermare l’essenza della canzone poi abbiamo capito che l’essenza era la varietà, il reinventarsi sul momento, portandoci così a essere molto attenti nell’ascoltarci l’un con l’altro“. Oh MY God Charlie Darwin è il secondo album del trio di lunga durata. I riferimenti alla sopravvivenza del più forte ha molto di attuale. Miller intona la ouverture del disco con un falsetto da brivido. Il resto è storia di questi giorni. Alle spalle del gran parlare dei tre c’è però un percorso. Il disco del trio che si definisce “un duo con troppi strumenti per essere suonati solo da due persone”, ha avuto infatti una gestazione lunga ma estremamente accurata non solo dal punto di vista musicale ma, soprattutto, per un lungo e preciso percorso che ha portato il trio dall’oscurità dei bar del Rhode island ai palcoscenici dei più importanti festival dell’estate 2009. Pubblicato nel Ottobre 2008 come autoproduzione, è stato dato in licenza esclusiva per 2 mesi alla Rough Trade inglese per una versione di 3000 copie personalizzate, al termine di questo breve periodo il gruppo ha suonato uno dei più acclamati set al SXSW di Austin, firmando, esattamente la mattina dopo l’esibizione, per la Nonesuch per l’America e per la Bella Union per il vecchio continente con una pubblicazione mondiale programmata per questa settimana (9 giugno). Chi c’era quella sera di marzo ad Austin racconta di un evento speciale. “L’aspettativa era grande - mi dice Tom Bridgewater della Loose record, il talent scout che ha letteralmente scoperto The Felice Brothers - e l’evento di SXSW dove essere non era nessun altro se non il concerto di The Low Anthem. Durante il loro show non volava una mosca e la tensione si poteva tagliare con il coltello. Dal vivo - aggiunge Bridgewater, uno al quale potete credere - sono ancora meglio che su disco perché nel disco una buona parte della loro sicurezza la si deve al produttore Jesse Lauter“. La eco di Dylan, the Band, Tom Waits, Grant Lee Buffalo blues pre urbano, appalachian songs ma anche diretti riferimenti a Bruce Springsteen ( la manager del gruppo è la giovane figlia di Jon Landau, quello di Bruce !) rendono Oh My God Charlie Darwin una offerta al di sopra della media e la perfetta nuova definizione di americana. Con più di 30 strumenti al seguito e uno smisurato amore per la beat generation ( che li ha portati a incidere in un solo take Home i’ll Never Be, testo di Kerouac musicato da Waits) i tre sono diventati i beniamini di tutti. Le idee che The Low Anthem portano nei dischi hanno molte referenze al modo di pensare della Beat Generation e su questo tema ai tre piace dilungarsi. Jeff dice “ dal punto di visto prettamente intellettuale amiamo l‘idea che un organo a pedali di cento anni fa fosse usato dai cappellani militari nella prima guerra mondiale e che oggi possiamo combinare quel suono con il segnale di un telefono cellulare e che i due possano essere devitalizzati e lanciati da un segnale da qualche parte dello spazio e raggiungere tutti“. Joice aggiunge per tornare con i piedi per terra “ci sentiamo piuttosto vulnerabili adesso, ma il nostro amore per la vecchia musica gospel ci permette di riflettere su quel che stiamo facendo e noi, pur con le nostre differenze, siamo voraci consumatori di vecchi dischi. Tutto quello che ascoltiamo è obbiettivamente vecchio: Dylan, Young, Gustav Mahaler. Però - continua - al momento la nostra maggiore preoccupazione è continuare a restare naturali. NON siamo la prossima grande cosa!”. La Adams, ex ricercatrice alla NASA (“ecco ! questo forse può essere un bonus per il pubblico rock & roll”dice Joice) conclude “ fra i molti amici musicisti come Elvis Perkins, Deer Tick, Badman, Larkin Grimm, Ben Pilgrim, Tallahassee, Roz Raskin, Wrong Reasons siamo adesso i beniamini ma vorremmo che anche loro avessero il rispetto che si meritano”. Intanto però - confessa Ben Knox Miller - adesso possiamo vivere di musica, solo otto mesi fa ci chiedevamo per quanto a lungo avremmo potuto continuare… ma i media sono come una slavina, a noi sta andando bene ma possono rovinarti. Tocca a noi dimostrare di non essere solo la sensazione di questo 2009!”. Ci riusciranno. |
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