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Martians at the window

Kaleidoscope
Pulsating Dream

Acadia/IRD



Jimmy Page li ha definiti come la sua band preferita di tutti i tempi, la sua band ideale.

Questo è forse il biglietto da visita migliore per cominciare a parlare di una band, i Kaleidoscope,  che nonostante l’apporto impareggiabile dato alla musica californiana di fine anni Sessanta ( o per meglio dire, alla musica in generale)  non ha mai trovato nel corso degli anni successo commerciale o grado di popolarità che possa costituire una presentazione migliore.

Eccentrici e creativi al di là di ogni prevedibilità, furono così avanti rispetto alla loro epoca che pochi durante i loro anni di attività seppero capirne la potenzialità. Con tutte le carte in regola per essere ricordati fra i gruppi migliori della West Coast Music, nei fatti i  Kaleidoscope sono passati alla storia come gruppo di serie B, e tutt’ora il loro nome resta all’ombra di quello di più illustri contemporanei come i Jefferson Airplane.

Oggi la Acadia  realizza un box che raccoglie i primi quattro album della band, ovvero il nucleo originario dei loro lavori di studio prima che il gruppo, provato dalla mancanza di consensi esterni, giungesse ad un primo scioglimento.

I Kaleidoscope erano potenzialmente una miscela perfetta. La prima formazione includeva David Lindley, Chris Darrow, Solomon Feldthouse, John Vidican e Chester Chrill. Quattro su cinque suonavano il violino. Cinque su cinque erano polistrimuntisti, per lo più cresciuti suonando tutto ciò che trovavano a disposizione.  Feldthouse è turco e portò nei Kaleidoscope tutta l’influenza della musica della sua terra. Lindley era cresciuto ascoltando i molti dischi di musica indiana della collezione del padre. Era uno strumentista eccezionale, tanto che Chester Crill parlando di lui come mandolinista ha dichiarato: “He used to be a hell of a lot better than Bela Fleck!”  . Chester Chrill invece è americano, ma con una personalità decisamente eccentrica. Nel primo album si chiama Fernus Epp, poi diventa Max Buda, a volte appare come Connie Crill e altre come Templeton Parceley. Quando nel ’76 i Kaleidoscope si riformarono per dare alle stampe “When the Scopes Collide”  pensò bene di chiamarsi in due modi diversi contemporaneamente. Il motivo? Probabilmente il fatto che oltre ad essere un musicista ha una delle più grandi collezioni di fumetti d’ America, e col tempo è diventato un fumetto anche lui. Chester Crill, in altre parole, non si sa se esista, non esista o sia mai esistito. A parte questo, suo padre era uno scrittore e insegnante di musica al College religioso delle Nazarene a Passadena. Chester, che già a 4 anni suonava di tutto, non ci è mai andato d’accordo. Si dice che nasconda la propria identità così che il padre non scopra che negli ultimi quarant’anni ha perso tempo con il Rock and Roll… 



Ad ogni modo, non era l’unico nell’entourage del gruppo con la passione di cambiare nome. Il loro produttore Barry Friedman, scopritore dei Buffalo Spriengfield e produttore, tra i vari, di Nico e della Paul Butterfield Blues Band, ad un certo punto decise di farsi chiamare Frazier Mohawk e dal quel momento in poi fu conosciuto come tale, con tanto di moglie che da Sandra Hurvitz si fece cambiare nome in Essra Mohwak.

Le premesse, insomma, sono queste.

Già in passato si era provato con la formula della compilation a rendere un giusto omaggio alla storia della band. Egyptian Candy (Sony/Legacy, 1991)aveva delle belle note di copertina, naturalmente della bella musica e il pregio di contenere inediti come “Love Games”, “Sefan” e “Egyptian Candy”, ma il progetto era molto meno antologico dal momento che, come Chester Crill  sottolineò, gli inediti sono interessanti ma non rappresentano la vera essenza dei Kaleidoscope.

Con Pulstaing Dream, finalmente, un ritratto più completo dei Kaliedoscope torna in superficie, e anche se l’operazione non costituirà il riscatto della band agli occhi del grande pubblico – cosa impossibile a posteriori -  è certo il segnale che il tempo sta riconoscendo alla band l’importanza musicale che merita.

Nel box si comincia da “Side Trips”,  del giugno del 1967, esordio discografico del gruppo.

Si ha da subito la percezione di come la band sia in grado di miscelare folk, blues (anche con cover di classici) , musica tradizionale, songwriting (Please), musica orientale (Egyptian Gardens), psichedelia californiana (Pulsating Dream, risultato di un pomeriggio di lavoro per creare la canzone più psichedelica dell’album).   Gli stili diversi si fondono con una naturalezza che non ha niente del pre costruito. La musica nasce del tutto spontanea. L’album sembrava destinato a diventare un successo (almeno nelle personali aspettative dei componenti del gruppo), ma sia i singoli che l’intero disco, un gioiello lungo appena 26 minuti, fallirono ogni obiettivo commerciale. Questo perché i Kaleidoscope erano dei pionieri, dei precursori, facevano cose che la gente non era pronta a sentire. Anche il  tentativo di avvicinare più possibile Pulsating Dream, nata con un testo diverso, agli stilemi della psichedelia (se così ha senso chiamarli) per renderla più accessibile alla massa si rivelò di poco conto.

L’incredibile abilità tecnica dei Kaleidoscope li rendeva degli sperimentatori anche negli strumenti utilizzati. Si va dall’oud al caz, dal dobro all’ harp guitar, strumento che stando alle parole di Lindley nessuno aveva idea di come si suonasse. La Gibson aveva prodotto forse fino agli anni Venti una serie di strani strumenti acustici con cui aveva cercato di imporsi sul mercato e lui , trovandosi con una harp guitar in mano e non sapendo come si utilizzasse, semplicemente si inventò il suo modo.  E ognuno nel gruppo suonava qualsiasi strumento come fosse stato il suo primo strumento.

Le capacità che il gruppo metteva in mostra in concerto assicurarono loro un’ ancora di salvezza e un contratto per il secondo disco, “Beacon from Mars”. I concerti dei Kaliedoscope erano effettivamente un’attrazione sotto tutti i punti di vista. I musicisti erano accompagnati sul palco da ballerini di flamenco e danzatrici del ventre, spesso reclutati all’ultimo momento da Feldhouse, il vero appassionato e promotore di queste coreografie orientaleggianti. E ascoltando quelle registrazioni non ufficiali che irrefrenabilmente girano tra i collezionisti non c’è da sorprendersi delle recensioni entusiastiche (anche se poche ) che i Kaleidoscope ricevettero all’epoca. Sentendoli suonare nel 1968 alla Carousel Ballroom, Pete Welding su Down Beat espresse tutta la sua meraviglia dicendo che si trattava di un gruppo curioso e unico e che la loro performance di quella sera aveva eclissato quanto di loro avesse mai precedentemente sentito.

Il gruppo lo colpì per la sua unità e compattezza, per la varietà di stili che erano in grado di suonare contemporaneamente e per la gamma di strumenti utilizzati.  E non poteva essere altrimenti, perché suonare nei Kaleidoscope, stando ai membri del gruppo, era una sorta di esperienza mistica dove ognuno metteva un po’ di sé e dove tutto confluiva in un unico, convincente risultato finale. Ciò che dalle registrazioni che ci restano, magari di bassa qualità e fermate su nastro chissà come, si capisce, è che i Kaleidoscope non temevano ciò che oggi frena molti degli artisti contemporanei,  cioè il rischio di sperimentare e di spingersi oltre.  Non avevano paura di essere diversi, e questo ancora oggi è uno dei segreti della loro musica e allo stesso tempo l’arma a doppio taglio che ha creato al gruppo i maggiori problemi.

Conferma della qualità del gruppo arriva con  “Beacon from Mars” , altro grande album che con brani come Taxim, Life will pass you by  e la title track di nuovo si distingue per la sperimentazione negli stili e nella strumentazione. E come il gruppo era orgoglioso di dire, il brano che da il titolo all’album venne tutto, incredibilmente, registrato dal vivo senza sovraincisioni.

Il 1968 è l’anno delle prime defezioni. Chris Darrow, più interessato al country che alle sperimentazioni etniche del gruppo, decise di lasciare i Kaleidoscope, per rientrare immediatamente dopo per un tour nella East Coast, a cui il bassista accettò di prendere parte a patto di non viaggiare nello stesso furgone del resto della band. La trovata dei ballerini di flamenco e delle danzatrici del ventre non andava a genio a Darrow. La trovava una distrazione inutile, non tanto per il pubblico quanto per chi doveva suonare con le ballerine davanti…

Il tour a New York, sul quale gli aneddoti abbondano, si rivelò un totale fallimento, con musicisti e strumenti stipati in camere d’albergo microscopiche e Darrow che abbandonava in anticipo la tournee ( per unirsi subito dopo alla Nitty Gritty Dirt Band ) lasciando il posto a Stuart Brotman, molto più interessato di lui alla musica orientale.  La scelta di Darrow fu imitata dopo poco da Vidican che, considerato dagli altri l’anello debole della band, fu sostituito da Paul Lagos.

Questa è la formazione del terzo album, “Incredible”, che  vanta la presenza di brani come Lie to me, Cuckoo (traditional ri arrangiato) o Seven-ate sweet , il cui titolo è un gioco di parole tra il significato letterale di “dolce mangiato sette volte” e il significato musicale di “7/8 suite”, cioè “suite in sette ottavi”. Musicalmente, anche grazie alla presenza di Brotman, è davvero il fluire di mille stili diversi, allontanandosi un po’ dalla psichedelia per avvicinarsi alla musica orientale. La conferma che più che da uno stile (a parte il loro stile) i Kaleidoscope erano contraddistinti da un sound.

Ancora una volta, con “Incredible”, i Kaleidoscope decisero di bypassare le pressioni di chi li voleva più proponibili sul mercato in nome della loro unicità, la stessa di cui ancora oggi ognuno dei componenti va orgoglioso.  Ognuno all’interno del gruppo era un leader nel suo campo, nel suo territorio di autonomia, in cui poteva liberamente apportare le proprie idee e far sentire le proprie influenze musicali. E tutto confluiva in una perfetta compattezza esteriore che di incrinò per la prima volta soltanto in “Berenice”, ultimo lavoro dei primi anni di attività del gruppo. Allora ormai le dinamiche interne della band erano provate dal tempo, e le session di studio caratterizzate da un continuo andare e venire di musicisti.

"Berenice”, comunque, non mise la parola fine alla storia dei Kaleidoscope. La band è tornata insieme nel ’76 per “ When The Scopes Collide”, alla cui registrazione partecipò sotto falso nome anche Lindley.  Nel ’90 fu poi la volta di “Greetins from Kartoonistan”, album che, anche senza pezzi originali, ha il potere di riportare indietro ai Kaleidoscope di un tempo. Stesso mix di stili, stessi strumenti strani ( Stuart Brotman suona anche il cimbalom), ma l’appeal rilassato di chi non ha più l’esigenza di dover dire qualcosa ma la consapevolezza di aver già detto molto.

Nella formazione Feldthouse, Brotman, Lagos, Darrow, Max Buda. Superfluo sottolineare che negli anni ognuno dei musicisti è andato avanti con la propria carriera individuale, dando alle stampe anche grandi dischi come il più recente lavoro di Darrow, Slide On In (Taxim, 2002), dove compare al violino, con una performance eccezionale, Max Buda.  E Lindley? Forse il musicista di maggior successo licenziato dalla band, dopo varie esperienze da solista e innumerevoli da session man oggi suona in duo con il batterista Wally Ingram. Lo abbiamo visto così, in splendida forma e fra splendide chitarre, lo scorso anno proprio qui in Italia, al Naima Club di Forlì.

Il cerchio quindi si chiude, mentre la storia dei Kaleidoscope in qualche modo va avanti. Dalla prima prova a casa di Feldthouse, prova di cui lo stesso si dimenticò completamente andando ad aprire la porta  a  Chris Darrow ( che vedeva per la prima volta) come uno zombie, sveglio da due minuti, sono passati quasi quarant’anni. Ma l’immagine dei Kaleidoscope, come la buona musica, resiste al tempo. Gruppo fantasma della California degli anni Sessanta, sorprendente e un po’ sfigato, spunta di nuovo dagli scaffali polverosi e sporge la testa sul mercato discografico, incombendo sul mondo con la sua ombra di genialità e follia. Come il titolo di uno dei pezzi del loro ultimo disco insieme, proprio marziani che si riaffacciano alla finestra. Giulia  Nuti

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