John e Bert non si sono parlati per anni, per un milione di motivi.
Perché, prima di tutto, sono due tipi di poche parole e poi perché, oggi che un pubblico giovane e competente sta per celebrare le intricate linee jazz folk che le loro due chitarre hanno per anni tessuto in un ambiente ostile e contrario lontano decenni dal riconoscimento attuale, la storia dei Pentangle pareva essere giunta definitivamente al termine.
Un box di 4 cd, “Time Has Come“ che racchiude il meglio dei 5 storici album che tra il 1969 e il 1973 segnarono il cammino di un genere che andava evolvendosi più verso il rock che verso l‘intimismo, dimostra oggi - insieme al prestigioso Folk Award ricevuto lo scorso 8 febbraio - che i cinque angoli della stella, opposti e contrari, continuano ad attrarsi indelebilmente.
Quaranta anni fa i Pentangle suonarono il loro primo concerto in un pub di Central London. Il concerto successivo - grazie al talento del loro manager americano Jo Lusting - fu alla prestigiosa Royal Albert Hall. Per sei anni suonarono girando il mondo senza soluzione di continuità, stretti nello stesso van, sbattuti da un palco all’altro, obbligati spesso a condividere i legni di scena con gruppi rumorosissimi come l’epoca richiedeva, uscendo sconfitti poche volte. Al Fillmore East di New York divennero un mito vivente massacrando un supergruppo mancato, i Rhinoceros, con la complicità di Bill Graham. I loro album conclusivi, come “Solomon’s Seal” trovarono, infine, più successo sulla West Coast che nelle brumose terre natali mentre laggiù Nick Drake pubblicava “Pink Moon“ e Richard Thompson “Henry the Human Fly “. Lo scioglimento non venne nemmeno discusso dai cinque, loro che si erano abituati alla dura disciplina di rinchiudersi in un camerino ed ad auto analizzarsi sorseggiando champagne rosa.
La genesi del box set era stata rigettata da tutti o quasi. Jacquie Mc Shee la soave cantante si era dimostrata entusiasta, il sicuro ed influente bassista Danny Thompson disinteressato, perso nei suoi mille impegni (Donovan, John Martyn, Richard Thompson), il quasi settantenne batterista Terry Cox, impegnato dietro ai fornelli del suo ristorante biologico di Palma di Maiorca rispose a una telefonata con apparente nonchalanche mentre Bert aveva rifiutato l’idea con un paio di parolacce, Renbourn, intanto, nicchiava per scrutare le decisioni altrui.
La proposta di un album solista (“The Black Swan”) e di un contratto a più lunga durata avevano però portato Jansch a più miti considerazioni, buona parte di queste mediate da un giornalista, Colin Harper, che John Renbourn non sopporta neanche adesso ma i cui meriti sono oggettivi, un tipo certosino che si sarebbe poi preso la briga di rimettere tutto in ordine. E al via di Bert seguì quello di tutti gli altri Pentangle.
Il risultato è una raccolta che è andata subito a ruba in Gran Bretagna e che adesso viaggia sull’’onda di una sola parola: fondamentale, come la musica dei Pentangle che, riascoltata, fa venire ancora la pelle d’oca per originalità e abbandono.
La finezza e l’eleganza del gruppo dal vivo - un intero cd di “The time Has Come “ è dedicato al debutto londinese alla Royal Festival Hall nel Giugno 1968, riempita con il solo passa parola generale - rende la musica del gruppo ancora più attuale. “ Ogni volta che qualcuno mi chiede di descrivere la nostra musica - mi disse Renbourn lo scorso agosto prima di un bel concerto in duo con Jacqui Mc Shee accuditi dalle intimissime colline pistoiesi - io la paragono a un tramonto. Puoi descrivere i colori ma non l‘effetto generale “. Parole semplici, dette da un uomo che ha saltato a piè pari molti fantasmi e molti tramonti, e molte albe.
“Time Has Come “ arriva oggi e si porta con sè le qualità del primo album, quel “Sweet Child” la cui copertine era di William Blake, l’autore dell’artwork di “Sgt Pepper”: esso rappresenta la definitiva dichiarazione di una diversità che lascia ancora senza fiato, da parte di cinque personalità che hanno mai voluto dire mai.
Ernesto de Pascale
|
|