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. | LIVE Bob Dylan - Mandela Forum, Firenze - 18 Aprile 2009 Firenze, alle nove di sera la leggenda si materializza sul palco. La leggenda veste di nero, Man In The Long Black Coat, in tenuta quasi militare, fuori dal tempo, piombata dalla guerra civile o da chissà quale altro viaggio alle radici della musica americana. La leggenda intona, stona, strascica “I ain’t gonna work on Maggie’s Farm no more” e i suoi seguaci, anche giovanissimi seguaci, esplodono. È un gioco di corrispondenze, nel 1965 un altro pubblico esplose, di rabbia, quando il giovane Robert osò accendere la chitarra elettrica al Newport Folk Festival. Oggi la leggenda ha compiuto il viaggio dalle radici al rock e ritorno, si porta dietro un’ottima band, viaggia per il mondo e macina tappe del tour senza fine, 34 date in 45 giorni a 68 anni, cose da far impallidire gli onesti mestieranti che potrebbero essere i suoi nipotini, e compare come un bluesman fuori dal tempo, con il cappello perennemente attaccato ai riccioli ingrigiti, come una vecchia star di qualcuno dei suoi film più recenti, in un qualunque club nostalgico statunitense. Non tutti i vegliardi bluesman, però, si possono permettere “Mr.Tambourine Man” come secondo pezzo della propria scaletta, e uno solo – la leggenda vestita di nero - si può permettere di averla scritta, una delle più grandi poesie del secondo novecento. Dieci minuti, signori, dieci minuti e potrebbe finire qui, tutti a casa, bye bye. Nemmeno il tempo di respirare ed ecco “Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine)” che, diciamolo, fino al ritornello pochi riconoscono, non travolgente come le versioni con la Band di metà anni ’70 ma nemmeno troppo distante. Un inizio da stropicciarsi gli occhi e le orecchie, per una serata da brividi, perché la leggenda non tutti i giorni ti si para di fronte. Ascoltarla e guardarla, preoccupandosi di fissare bene in mente il suo profilo sfuggente, mentre ondeggia sulla tastiera, è compiere un viaggio, sempre troppo breve, nella storia del ‘900. Tutto il resto è musica, intensa come in “The Lonesome Death Of Hattie Carrol”. Se proprio bisogna catalogare qualcosa, una delle migliori performance della serata. Ma parlare di qualità sarebbe riduttivo, è l’esperienza in sé che trascende dal concerto, per un profano sarebbe perfino balzana questa esperienza, ricapitoliamo: è impossibile cantare i pezzi di Modern Times, è impossibile seguirne le parole, la maggioranza del pubblico nemmeno li conosce, il cantante si nasconde di lato alla tastiera, si apre una gara per chi indovina per primo la canzone tale, qualcuno scambia “Ballad of Hollis Brown” con “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)”. Un disastro. Poi chi lo spiega al profano cosa si prova quando inizia la-canzone-che-ognuno-sogna-di-scrivere, quando la leggenda ti concede di urlare Like A Rolling Stone, di commuoverti quasi. How does it feel? Chi lo spiega cosa vuol dire aspettare con emozione l’ultima canzone, che sarà “Blowin’ In The Wind”, sapendo già che il bluesman farà una cover quasi parlata del più toccante inno di pace di sempre. Dice che l’abbia scritta nemmeno ventiduenne un tale degli anni ’60, pare che si chiamasse Bob Dylan. Una leggenda letta sui libri, insieme al suo fondo di verità il 18 Aprile, Mandela Forum, Firenze. Matteo Vannacci |
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