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Intervista con Sean Costello
Sean Costello ha la faccia del bravo ragazzo americano, come ormai non se ne trovano piu’. Non sembra nemmeno un musicista, piuttosto uno studente universitario che sposerà, inevitabilmente, la ragazza della porta accanto. Gentile, misurato, anche sincero in momenti nei quali altri preferiscono bluffare. Visto in concerto, suona il Blues come un vecchio marpione a dispetto dei suoi 25 anni, ma senza quella disturbante teatralità che tanti ostentano. Insomma, poco fumo e molto arrosto per un giovane che non proviene nemmeno dalle zone sacre del Blues, ma da Atlanta, Georgia. Il suo nuovo disco porta semplicemente il suo nome.
PDB = Questo è il tuo quarto disco e hai solo 25 anni. Dove vuoi arrivare?
SC = Questo è un disco importante, perchè qui c’è molto piu’ Soul che non Blues. Essenzialmente sto cercando di definire il mio stile, di trovare una strada personale, non voglio suonare scontato come mi sembra sia il caso di gran parte della musica d’oggi.
PDB = Rischi d’inimicarti la critica che ti ha sempre elogiato.
SC = Ne sono pienamente cosciente, adesso è troppo presto per vedere la loro reazione. Indubbiamente il cambiamento è forte, non ho abbandonato la chitarra, ma mi sono concentrato molto piu’ sulla voce e sulla scrittura dei pezzi. Non potrei abbandonare lo strumento con il quale mi sono identificato per quasi tutta la mia esistenza, pero’ preferisco esser piu’ sobrio, non ridurre il tutto ad assoli piu’ o meno lunghi, piu’ o meno esaltati.
PDB = parlaci di questa svolta Soul.
SC = Sono cresciuto a forza di Chicago Blues e dei suoi grandi chitarristi, soprattutto Otis Rush, che adoro. In età piu’ adulta ho cominciato ad ascoltare i grandi cantanti di Soul, specialmente Johnnie Taylor, Donnie Hathaway, Al Green, Johnny “Guitar” Watson, ma anche Tyrone Davis, O.V. Wright, Otis Clay. Mi piace molto anche Robert Cray, un cantante-chitarrista che è riuscito a fondere Blues e Soul in maniera esemplare.
PDB = Chi sono i musicisti che suonano con te in quest’ultimo disco?
SC = A parte la mia touring band, ci sono Levon Helm, Steve Jordan, Willie Weeks e Paul Linden all’armonica.
PDB = Ma se c’è l’armonica, continui a fare Blues!
SC = In questo disco convivono diversi stili e tante idee, c’è anche un pezzo di Bob Dylan, ma ho cercato d’esser personale, di metterci molto di mio.
PDB = Qual è la reazione del pubblico?
SC = Per il momento buona, ma suono da poco questi pezzi. Nel 2003 avevo fatto 150 date, 100 nel 2004, sono tante ma non tantissime, si puo’ sopravvivere. Nel 2005 dovrei ritornare in Europa e magari sbarcare in altri continenti. Vediamo. Suono volentieri nei grandi festival dove di solito c’è una grande atmosfera, ma mi sembra di rendere meglio nei piccoli clubs. Condivido il punto di vista di tanti miei colleghi su suonare in Europa: il pubblico è piu’ educato, piu’ attento, vengono per ascoltare della musica, non, o almeno non solo, per ingozzarsi di birra.
PDB = Hai solo 25 anni, hai inciso il primo disco “Call the cops” a 17, praticamente sei musicista professionista da sempre, non ti sembra d’aver rinunciato a qualcosa della tua giovinezza?
SC = Questa è una bella domanda. Sinceramente no. Certo, quando gl’altri facevano le festicciole tra studenti, io magari suonavo a trecento chilometri di distanza; non ho potuto socializzare molto coin miei coetanei. D’altra parte, ho viaggiato molto, ho visto molte cose che altri giovani non hanno l’opportunità di fare o di vedere, e questo grazie alla musica. E’ stata una scelta vita, e mi sento un ragazzo fortunato, ho colmato i miei sogni suonando con tanti grandi Bluesmen; adesso devo dimostrare che ho imparato qualcosa e che ho trovato la mia strada.
(Intervista raccolta da Luca Lupoli, 10 gennaio 2005)
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