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Bright eyes: i’m wade awake, it’s morning
(Saddle creek)
www.saddle-creek.com
Superb Acoustic masterpiece of loneliness and desolation by much talented Conor Oberst aka Bright Eyes. Echoes of early Elliott Murphy and his “lost generation” resurface in a record which emphasis most on words and contents.
Bright Eyes suona meglio di Conor Oberst. Conor, da Omaha, Nebraska, ci deve aver pensato su in questi anni. Talento naturale, le sue prime incisioni risalgono a quando aveva 14 anni, a 20 aveva scritto più di 200 canzoni e scampato la morte per overdose alcolica, mentre i suoi album erano già stati etichettati come quelli di un nuovo Dylan, portavoce della sua generazione.
Bright Eyes ha prodotto, in questo inizio del 2005, due album molto differenti fra loro (l’altro si intitola “digital ash in a digital urn“) e fra i due questo brilla per profondità e musicalità. Incredibile pensare, visto l’intimità di “i’m wide awake, it’s morning“ che due canzoni sino entrate nelle più importanti airplay delle radio americane. Contemporaneamente a quest’evento, Conor era stato, nel frattempo, invitato, unico artista “ giovane “, a partecipare alla tournée di “Vote for Change” lasciando con un palmo di naso gente come Ryan Adams il quale, con quello che è passato sotto i ponti negli ultimi due anni, è oggi a leccarsi le ferite.
Veniamo al disco: Conor, forse senza saperlo, appartiene alla generazione di cantautori e personaggi “ persi” di cui cantò così bene nei settanta Elliott Murphy in quel piccolo grande capolavoro dallo stesso titolo, “lost generation“.
Il cantautore affonda il coltello nei temi della solitudine, della disperazione e dell’arrendevolezza. Oberst, da Omaha, ci pare figlio di una provincia, quella americana, che nelle sue canzoni sempre più disperata e nel caos (“at the bottom of everything“) e che vive e fa sentire la sua voce comune solo quando si materializza nei ventuno milioni di spettatori che ogni sera si sintonizzano su “Disperate Housewives“ (in Italia su La 7 e Fox, storia di 4 donne, fra i 30 e i 45 anni che hanno scelto la famiglia alla carriera).
La provincia di Bright Eyes è qui, nelle sue canzoni sognanti, cantate da una voce a volte rotta, a volte accorata, sempre sincera; anche le storie diventano cittadine (“Lua“) si torna presto indietro. Si parte con un treno e, dopo la notte in città, ci ritorna, chissà dove, osservando scorrere l’umanità al finestrino. Anche nella ricerca della serenità e dell’affermazione di un qualche motivo positivo della propria vita, Conor sceglie di accompagnare le sue parole e musica dai toni intimisti (“first day of my life“).
Queste attitudini descritte sono un naturale aspetto di Oberst, una propensione naturale che lo renderà immediatamente simpatico ai più sensibili e lo farà piacere a quelli che hanno amato artisti come Townes Van Zandt e Guy Clark. Le qualità, indubbiamente ci sono: il cantautore di Omaha in “Landlocked blues” è devastante nella trasparenza del racconto e offre un’ottima descrizione degli eventi rinforzandola da una precisa ambientazione. Conor, come un operatore che gira con una camera a spalla intorno ai protagonisti, fa entrare in scena elementi minori che aumentano spessore alla storia, la descrizione di una giovane coppia che si lascia, e lo fa con toni e sfumature davvero mature che non possono non impressionare.
Ci si augura che le cose della vita di Bright eyes vadano e siano andate un po’ meglio di come lui ce le descrive. Intanto teniamoci stretto “ i’m wide awahe, it’s morning “ e sull’onda emotiva di altri esordi, come Ray La Montagne o di nomi già più affermati come Rufus Wainwright, stiamo a vedere che direzione prenderà Bright Eyes che ricordiamolo non contento, insieme a questo disco ha pubblicato un altro album dai toni elettronici che si intitola “Digital ash in a digital urn”, realizzato con componenti di My Morning Jacket e Yeah, yeah, yeah.
E quando si arriva in fondo a “i’m wide awake, it’s morning”, con la canzone che dà il titolo all’album, Bright Eyes si libera dalla pressione delle storie che ci ha raccontato e urla sull’onda emotiva di una musica che ricorda non a caso e per assonanze biografiche i migliori Pogues di Shane Mc Gowan, pare voler comunicare che le avventure che ci ha cantato finalmente, registrate e date alle stampe, non lo appartengono più. Come se l’album rappresentasse una sorta di liberazione per andare oltre e lasciarsi i fantasmi del passato dietro le spalle. Per sempre.
Ernesto de Pascale
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