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Anteprima
John Doe: Forever hasn’t happened yet

(Yeproc/IRD)
www.yeproc.com

A Los Angeles, sul finire degli anni settanta John Doe era un giovane bello tosto, capo carismatico di una scena nuova e frizzante che aveva già avuto i suoi magnifici perdenti o vittime come Derby Crash dei Germs, ennesimo loser in una lunga fila di punk. Il Punk della città degli angeli, dopo le prime sbornie violente, era, alle porte degli ottanta, fortemente intriso da umori di frontiera e di rock & roll. Erano gli anni degli X, dei primi Blasters, del paisley underground. Era nata una nuova scena, che scopriva attraverso una attitudine, ad altri sconosciuta, la eco che un passato non troppo remoto aveva lasciato nelle valli di Laurel Canyon. Pur di lasciarsi dietro il passato ingombrante di un decennio d’eccessi la gente, tutta la gente del posto, guidava macchine che parevano ferrivecchi di trent’anni, fino all’immenso spazio del deserto che divide California e Nevada, e lasciava lì un pizzico della propria storia. Joshua’s Tree, Central Valley, Highway 99 divennero in quegli anni la cloaca massima di Los Angeles. Qualcuno traslocava laggiù per non tornare mai più indietro.
Il sogni che il Punk potesse cambiare il mondo e L.A. finì presto anche per John Doe : la rivoluzione culturale durò il tempo di una poesia, di un attimo, e John si ritrovò solo, come solo aveva vagato prima della bella avventura musicale con Exena Cervenka, Billy Zoom, D.J. Bonebrake (il cui album d’esordio “X“ era prodotto da Ray Manzarek dei Doors).
Da allora ad oggi molto è cambiato nel mondo di John ma non quell’attitudine e nelle note di copertina del suo nuovo album “ Forever hasn’t happened yet “ si legge che “ …questo non è punk rock ma usa gli stessi ingredineti di quello : sesso, droga, morte, perdite, appartenenza, alienazione. La differenza – continua l’artista – è la velocità e la melodia delle canzoni che sono collocate in un profilo sonoro che si presenta meglio, ma che mantiene un certo stridore. Questo album è “Americana” al suo massimo - prosegue nella sua “ auto recensione ” John Doe - come quando il blues raggiunge la sua massima intensità e il country il punto più alto della tristezza. Questo è un disco realizzato come Muddy Waters avrebbe registrato un album, con tutto l’utilizzabile buttato dentro una piccola e umida stanza fino a che le canzoni non si materializzavano sgusciando attraverso le fessure della stanza “. Il recensore conferma. Non poteva usare parole migliori di quelle di John Doe. Buona fortuna e buon viaggio.

Ernesto de Pascale




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