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Michael Bublé: It's Time
(Reprise-Warner)
L’aperitivo è una concessione voluttuaria che, proprio perché non strettamente necessaria, dà la sensazione di un piacevole strappo alla regola: è qualcosa di cui si potrebbe anche fare a meno ma, quando te lo permetti, di solito ti senti gratificato.
Questa riflessione mi è venuta ascoltando il nuovo album di Michael Bublé, del quale non si sentiva la necessità impellente ma, adesso che c’è, lo si può acquistare e ascoltare con un certo snobistico diletto.
Infatti, anche per merito dei produttori David Foster e Humberto Gatica, vecchie volpi della confezione-regalo che deve piacere già dalla copertina e da quello che c’è scritto sopra, il disco non è male, gli arrangiamenti funzionano, i musicisti fanno il loro dovere come meglio non potrebbero e i brani sono quasi tutti buoni, alternando evergreen (“A foggy day”, “The more I see you”, “I’ve got you under my skin”, ecc.) a pop song di buon livello (“Song for you” di Leon Russell, “You and I” di Stevie Wonder, ecc.), creando così il mix ideale per un pubblico eterogeneo.
Allora tutto è in regola e la coscienza è tranquilla: abbiamo fatto un ottimo acquisto.
Ma non è così e la nota dissonante è proprio Bublé, peraltro bravo, gradevole, musicale, intonato e pieno di buona volontà nel voler dimostrare che è un vero crooner, salvo poi rivelare, sulla distanza, che probabilmente ha bisogno ancora di un po’ di tempo per essere maturo al punto giusto.
Per rendervene conto fate questa prova: ascoltate un solo brano, due al massimo e vi sentirete rilassati, in pace con il mondo.
Ascoltatene invece cinque o sei di fila: probabilmente il relax sarà tale che ad un certo punto vi calerà addosso una cappa di noia mortale e spegnerete il lettore cd.
Questo non toglie che il disco nell’insieme sia valido, a parte un paio di cadute di gusto: “Can’t buy me love”, proposta a ritmo e arrangiamento esagitati, fa un po’ rimpiangere la versione originale dei Beatles e “Quando quando quando”, la canzoncina orecchiabile e spensierata che tutti conosciamo, trasformata in bossa lenta sofisticata non convince e viene il dubbio che sia stata infilata a forza nell’album in virtù dell’amicizia che lega Tony Renis a David Foster.
Detto questo, se vi avanzano venti euro comperate pure questo disco, che potrà coesistere senza problemi sullo scaffale accanto ad altri dello stesso genere.
Poi, se dopo l’aperitivo vi sembra che manchi qualcosa e sentite la necessità di un apporto più sostanzioso, mettete sul (nel) piatto magari un’altra versione di “I’ve got you under my skin”: suggerirei quella vintage di Frank Sinatra con Nelson Riddle.
Stavolta non avrete bisogno di altro e, quando avrete consumato, sarete talmente soddisfatti che istintivamente vi verrà voglia di lasciare la mancia.
Rinaldo Prandoni
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