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Da questo mese Rinaldo Prandoni presenta un articolo esclusivo dedicato all’essenza delle composizioni e al loro valore intrinseco. Piacerà a tutti i musicisti che leggono il Popolo del Blues e a tutti coloro che vogliono imparare a distinguere il valore di un disco o di un brano rispetto ad un altro.

Il disco perfetto

Una buona canzone, una buona voce, un buon arrangiamento, una buona incisione: quando troviamo queste quattro condizioni insieme, probabilmente siamo di fronte al disco perfetto.
Tutto può essere relativo, nel senso che ognuno utilizza un proprio metro di giudizio e, pur tenendo conto di certi parametri dai quali non si può prescindere, lo stesso giudizio viene influenzato dai gusti e dalle esperienze personali.
Io, per esempio, sono molto legato alle atmosfere nordamericane degli anni ’60 e non mi riferisco solo al pop e al rock, ma anche agli standard, al jazz, alla musica da film, insomma a tutto quello che bolliva in pentola durante quell’osannato e a volte vituperato periodo.
Mi limiterò quindi a considerare tre esempi dell’epoca, ben sapendo che ce ne potrebbero essere centinaia per ogni genere musicale: chi vorrà potrà comunque elaborarsi una personale classifica e magari dissentire da quanto da me affermato, in virtù di quanto sopra premesso.
Avevo circa vent’anni e il primo disco perfetto che ricordo è “Georgia on my mind” di Ray Charles.



“Bella forza!”, dirà chi sta leggendo: ammetto infatti che è troppo facile partire da un capolavoro simile (oggi l’abbiamo sentito tante volte che ormai ci può sfuggire la portata del suo valore, ma riflettiamo sulla circostanza che eravamo nel 1960 e la vera evoluzione del pop doveva ancora venire).
La fortuna volle che da Ricordi, in Via Berchet a Milano, venissi attratto da questo 45 giri EP (extended play, perché conteneva quattro tracce anziché le due canoniche del disco normale), dove in copertina spiccava la foto del genius su fondo giallo.
Conoscevo sia l’artista che la canzone, un classico di Hoagy Carmichael che vantava già moltissime incisioni, e proprio la curiosità di ascoltare il risultato dell’abbinamento mi spinse a chiedere alla commessa di farmene ascoltare l’inizio.
Si faceva così, infatti: se un disco interessava, lo si poteva ascoltare e decidere poi se acquistarlo o no, senza cuffie, con l’ascolto pubblico davanti al banco di vendita, e devo riconoscere che così facendo se ne avvantaggiava il rapporto umano, dato che durante l’ascolto ci si potevano scambiare impressioni e pareri.
Il disco cominciò a girare sul piatto e già l’introduzione mi emozionò, poi, quando partì la voce: “Georgia… Georgia…”, capii che quel disco doveva essere mio.
Dissi alla commessa di fermarlo, pagai e mi precipitai a casa per ascoltare e godere da solo.
Godere è la parola giusta e fu davvero una specie di orgasmo musicale ripetuto fino alla nausea, al punto che mia madre, di solito pazientissima con i miei ascolti, ad un certo punto mi pregò di smettere, o perlomeno di cambiare canzone.



Secondo me, “Georgia” di Ray Charles, grazie anche allo splendido arrangiamento di Ralph Burns, è un grande esempio di disco perfetto.
L’introduzione, le risposte alla voce, i cori, le armonie modificate quanto basta, le notine del finale, perfino le pause, per non parlare della sublime interpretazione di Ray Charles, tutto contribuisce a creare il pathos che regge dal principio alla fine, così giusto che diventa irripetibile (prova ne sia “Ol’ man river”, realizzato dalla stessa squadra che cerca di ripetere la medesima atmosfera e ne ottiene invece un risultato quasi stucchevole).
Ripescando fra altri ricordi di quel periodo, cito un’incisione italiana alla quale assegnerei il titolo: si tratta di “Arrivederci”, cantata da Marino Barreto jr.
“Chi è costui?”, qualcuno si chiederà, e la domanda è lecita, anche se credo sia giusto che questo anomalo rappresentante della musica leggera italiana degli anni ’60, oggi dimenticato, venga riscoperto e rivalutato.
Marino (Don Marino, come con un filo di vanità si faceva chiamare) era un nero cubano, originario del territorio di Matanzas (tra l’altro, Matanzas era il suo pseudonimo come autore), stabilitosi in Italia alla fine degli anni ’50: aveva formato un complesso, ottenendo grande successo per merito della sua particolare voce nasale e cantilenante e della sua strana pronuncia, che si adattavano perfettamente alle ritmiche da lui predilette, soprattutto sambe, boleri (spacciati da lui come sambe lente), cha cha cha.
“Arrivederci” era stata scritta da Bindi e Calabrese, una coppia che ha dato molto alla canzone italiana in termini di qualità, e aveva già avuto un buon riscontro, ma la palma del grande successo popolare le venne proprio dall’incisione di Barreto, nel 1959, per merito senz’altro della voce altamente suggestiva, ma anche dell’ottimo arrangiamento (tiro ad indovinare: di Giulio Libano?), tutto azzeccato: note, cori, colori messi al punto giusto, niente da aggiungere e niente da togliere, oltre al finale con quel “Good bye…” che messo in bocca a qualcun altro sarebbe forse suonato ridicolo e invece detto da Marino Barreto jr sembrava la conclusione più logica.
Azzardo la terza candidatura tirando in ballo un altro artista forse poco noto al grande pubblico: Jesse Belvin, a farlo apposta anche lui nero.
Esponente dell’ala R’&B’ più raffinata, dotato di una voce vellutata e senza picchi che usava con gusto e garbo, dando anche prova di saper swingare con maestria quando occorreva, Jesse Belvin ebbe la disgrazia di morire in un incidente aereo quando la sua casa discografica, la RCA Victor, aveva deciso di lanciarlo e farlo crescere come crooner e antagonista di Johnny Mathis, Tony Bennett e altri interpreti di ballads dell’epoca.
Era stato soprannominato Mr.Easy proprio per il suo particolare approccio vocale e questo è anche il titolo dell’album nel quale c’è il brano che io considero un altro gioiello da tenere caro: “It’s all right with me” di Cole Porter.
L’esposizione comincia e finisce con il basso solo che accompagna la voce e, man mano che si procede, si aggiungono via via gli strumenti in un crescendo che diventa irresistibile, raggiungendo l’apice a metà, nello speciale strumentale dove per due volte un bel riff d’orchestra lancia l’improvvisazione del sax alto (dallo stile e dal timbro direi Art Pepper o Lennie Niehaus), il tutto di una perfezione assoluta, non una virgola fuori posto.
Bravo Jesse Belvin che ci sta benissimo con il suo timbro cool ma dieci con lode a Marty Paich, arrangiatore con baffi e controbaffi, che qui supera se stesso.
Ecco, questi per me sono tre esempi di dischi perfetti, dove melodia, arrangiamento, voce e qualità di registrazione sono al massimo consentito dal gusto, dalle conoscenze musicali e dalla tecnica del momento.
E se qualcuno volesse allungare la lista, affrontare altri periodi e dare suggerimenti per altri ascolti o anche solo contestare i miei assunti, scriva pure: il confronto è indispensabile ed essenziale per migliorare e progredire.

Rinaldo Prandoni


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