Erano ancora gli anni settanta quando Donald Fagen e Walter Becker, in arte Steely Dan, di ritorno dalla west coast nella loro città di provenienza musicale, New York City, decisero di innalzare una fortezza intorno alla propria concezione della musica.
Walter & Donald lo fecero per motivi molto distanti e differenti da quelli che avevano portato i due a sciogliere la band alla metà di quel decennio.
Avrebbero poi atteso 15 anni circa per riaffermare il sodalizio e ritornare sul mercato con “Two Against Nature”, del 2002 - gran bel titolo per spiegare il diritto alla diversità e alla non omologazione delle idee - dopo l’intervallo che li separava da quel “Gaucho” del 1980 che parve un passo indietro rispetto al loro capolavoro assoluto, “Aja”, del 1977.
Negli anni di mezzo i due non avevano mai smesso di incrociarsi e di professare un ritorno artistico, al punto tale che i loro album solisti suonavano come estensione della musica dei Dan, un pop jazzistico corrosivo ed agrodolce dal forte inprinting personale che deve più a Duke Ellington e a Keith Jarrett che alle Top Ten del momento.
Con “Morph The Cat” Donald Fagen, l’anima armonica del duo, l’uomo con il testa il GPRS biologico della musica degli Steely Dan, non si muove di un centimetro dallo stile coniato in tempi non sospetti e licenzia un album senza tempo che soffre solo di essere messo in distribuzione dopo tanti, troppi?, capolavori dei due.
“Morph The Cat “è un disco che non riserva sorprese. Andata è l’icona del Dj notturno. Qui Donald è seduto, la luce del giorno che lo illumina da sinistra ce lo mostra vestito di tutto punto, in attesa di qualcosa, qualcuno, accanto a una scrivania da giornalista di The New York Times degli anni cinquanta, legame efficiente alle atmosfere retro della copertina del suo eterno ”Nightfly”.
Le atmosfere agrodolci dei blues modificati, di cui Donald è un campione, vengono subito a galla in “Morph The Cat”.
Dalla sinuosa “What i Do”, in cui Fagen sforza il suo talking blues nelle melodie di un chorus tanto caro ai suoi seguaci, attraverso un solo d’armonica per niente obsoleto, alla successiva “ Bright Nightgown”, il cui groove rotondo e ciccione ti ruota intorno sbilenco fino a che non emerge chiaro in una coda contrappuntata da una chitarra che potrebbe essere suonata da Jerry Garcia se questo non se ne fosse andato più di dieci anni fa.
“There’s a strange new music in the street” canta Fagen nel successivo “The Great Pagoda of Funn” e subito qualche recensore ha voluto sottolineare come “Morph The Cat” non presenti nessuna novità sostanziale rispetto ai dischi precedenti del nostro dimenticandosi però quel ruolo da cronista che Donald, e Walter, hanno proposto per loro stessi fin da tempi immemorabili negli Steely Dan, con canzoni cinematografiche, quadri di un attimo fuggente, fotografie in bianco e nero di luoghi(“Babylon Sisters”)e/o persone(“My Rival”) che sono già parte della collezione delle più importanti gallerie della memoria storica della musica dei nostri ultimi 50 anni, da Elvis ad oggi.
Fagen, oltretutto e questo non è mistero, ha da sempre affermato il suo deciso interesse per il ritmo, per quella sottile schiavitù che trasforma una canzone in una droga e “Morph The Cat” è pieno di questi additivi.
Proprio in “Bright Nightgown” è il perfetto esempio di ciò; e ti trovi dentro un bridge strumentale che è come vedere New York City al tramonto dal sedile posteriore di una limousine per la prima volta, quando gli occhi vanno dovunque e vorrebbero fermare tutto senza riuscirci ma hai la sensazione di esserci sprofondato dentro. Sette minuti di puro piacere.
Poesia giornalistica a parte in “Morph The Cat” troverete ancora quelle vibranti ed energetiche curve a gomito armoniche, le montagne russe melodiche e testi sardonici e sarcastici quanto il viso a punto interrogativo di Donald Fagen.
A fronte di ciò la musica resta quella piacevole dondolante risacca che mentre si sciaqua tutta uguale ha il sopravvento e ti fa scomparire, con una sola alterazione di note.
Ecco allora “ Security Joan” dove il ritmo è sempre uguale, al limite del noioso e dove il solo di muted trumpet deve più al weast coast jazz di Chet Baker che a tutto il resto, e si muove strano su un background di semitoni che paiono cozzare fra loro.
Niente sorprese quindi, si chiederanno quelli che comprano i dischi un tanto al chilo ? ci dispiace, niente sorprese. Ma con “Morph The Cat” siamo nel più alto artigianato, è come bere wiskey prodotto da una piccola distilleria, dove la vera gioia è riuscire a ricreare quel blend perfetto ogni anon.
Quando sarete riusciti a superare questa apparente mancanza di gadget musicali buttatevi però a capofitto in “The night belongs to Mona” dove un organo con i drawbars dispari e ghiacciati swinga nelle retrovie del mix per la gioia degli audiofili. Non vi stupirete allora quando vi scoprirete a notte fonda a fare skip con il lettore cd o a inserire la funzione repeat per ripassare per la millesima volta da quel maledetto organo.
Accidenti a te, Donald Fagen!!!
Ci hai fregato ancora!
Quei giornalisti che pensavano di poterti massacrare ora si leccano le ferite ascoltando la storia improbabile di “The Night belongs to Mona”, che poi potrebbe essere la storia di chiunque o ripensa al sapore trasversalmente fifties dei personaggi di “H Gang”.
“Morph The Cat” di Donald Fagen ci saluta con un bellissimo brano dai toni vagamente noir, “ Mary shut the garden door”, che passa dal bianco e nero al colore nel giro di un chorus.
Futuro classico di Donald, che qui torna alla sua amata melodica, è il perfetto esempio dell’arte apparentemente immobile di Donald Fagen, un Guggenheim della contemporaneità, dove dietro la freddezza delle stanze( leggi canzoni) si cela un mondo adulto dove “si sbaglia da professionisti”( Paolo Conte).
Ma se Donald Fagen ha davvero compiuto qualche errore in “Morph The Cat” a noi, recensore, non ci è parso proprio e giunti in fondo siamo ripartiti dall’inizio. Con rinnovato piacere
Ernesto de Pascale
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