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Moody blues Progressive Viaggio alle radici del Progressive The Moody Blues Cosa precede la nascita del Progressive? Sicuramente la musica dei Moody Blues non è l’unica risposta, ma un buon contributo è stata in grado di darlo. Ed è proprio con quella parte della loro discografia fatta di dischi psichedelici e sinfonici in cui si distinguono tratti anticipatori della successiva corrente musicale inglese che comincia il viaggio attraverso le straordinarie ristampe che la Universal sta per lanciare sul mercato. Si tratta degli Albums Days of future passed, In search of the lost chord, On the Threshold of a dream, To our Children’s children’s children e A question of Balance , del periodo 1967 1970. La storia di questa band nasce all’inizio degli anni Sessanta a Birmingham, Inghilterra, quando faceva parte di quella folta schiera di gruppi che suonavano blues e rythm&blues. Ma non tutto il male viene per nuocere. Con il cambio di formazione entrano John Lodge e Justin Hayward. Gradualmente il gruppo evolve il proprio genere musicale a favore della psichedelia, di arrangiamenti orchestrali e sinfonici, di brani più lunghi e strumentali. Le concomitanze questa volta giocarono a favore, dal momento che la loro etichetta, la Decca, nel 1966 stava cercando una via promozionale per la lanciare sul mercato la nuova arrivata tecnologia del “Deramic Sound”, su un mercato inglese in cui la stereofonia ancora non era popolare. Per dare prova della ricchezza delle capacità sonore del Deramic Sound, la Decca voleva commercializzare un LP di pop sinfonico inizialmente concepito come una versione rock della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak. Ma a prendere il posto di questa iniziale idea arrivò Day of Future Passed dei Moody Blues. Dvorak venne sostituito con le nuove composizioni originali del gruppo, che avevano conquistato immediatamente l’approvazione del produttore Tony Clarke. Nasce così un lavoro epico, un concept idealmente dedicato all’evolversi di una giornata e interamente registrato con il supporto dell’orchestra. A questo punto i Moody Blues hanno fatto Bingo. Days of Future passed ha la dolcezza e l’orecchiabilità melodica dei primi brani dei King Crimson (che a tratti all’inizio proprio ai Moody sembrano rifarsi), ma la scrittura porta con se ancora le sfumature di quel modo magico e puro primi anni Sessanta che nei Settanta sarebbe stato sommerso da mille altre influenze. In più c’è il supporto di una scrittura orchestrale classica, lontana dal “Baroque&Roll” dell’apice della ridondanza progressive. Il giorno comincia (The Day Begins, appunto) con una introduzione orchestrale, che lascia spazio al primo commento parlato su un tappeto d’archi. Ma con l’alba e la seconda traccia ( Dawn is feeling) parte il primo cantato, e non si hanno più dubbi nel riconoscere, insieme ai residui di una scrittura pop con accompagnamento terzinato, i semi del futuro prog. Ed è meraviglioso trovare in brani come (Another Morning) le caratteristiche di quella primitiva psichedelia di gruppi come i contemporanei Nirvana inglesi, così che per chi ha ascoltato qualcosa che sta musicalmente prima e qualcosa che sta musicalmente dopo non sarà difficile riconoscere nel capolavoro che è Day of Future Passed tutte le caratteristiche di un anello di passaggio. Brani come Lunch Break riportano invece all’origine Rhythm&Blues della band. Un disco tutt’oggi da brividi, una miscela di armonie e melodie incredibili . Qui in Italia avremmo conosciuto la conclusiva Nights in white Satin sotto le vesti della celebre Ho difeso il mio amore dei Nomadi. Per le bonus tracks della ristampa “Deluxe Edition” la Universal non si è risparmiata. Un secondo cd con 19 brani tra cui singoli in versione mono, numerosi inediti come versioni e mix alternativi, BBC Sessions. Il 1968 è l’anno del seguito del capolavoro, In search of the lost chord. Questa volta la Decca si dimostrò ben più dubbiosa nel replicare gli investimenti fatti per l’album precedente e decise di non affittare nuovamente un’orchestra. Si creava così un gap artistico da colmare, sarebbe stato difficile per i Moody rinunciare tutto in una volta a quanto costruito con gli arrangiamenti e la scrittura dell’album precedente. La risposta sta nel Mellotron, largamente utilizzato da diversi gruppi in quegli anni (gli Spring nel 1971 ne avrebbero utilizzati più di uno alla volta), che il tastierista Mike Pinder non solo sapeva suonare, ma aveva anche collaborato alla sua progettazione. Lo strumento divenne così presto una chiave del loro sound. Anche i cori e le linee vocali doppie si moltiplicano. L’apertura dell’album è più rock, seguita presto da un brano in chiave più beat e psyco-rhyth&blues come Dr. Livingston, I presume. Siamo in piena era psichedelica, e si sente. Nella sua sezione centrale l’album consegna alla storia la sua gemma, la mini suite psichedelica Legend of a Mind, in cui risuona a gran voce nel testo il nome del guru della controcultura dell’epoca, Timothy Leary. Meno sbalorditivo rispetto al suo predecessore, che del resto era un picco difficile da bissare al primo colpo, l’album è comunque notevole ed è una degna prosecuzione del progetto musicale dei Moody Blues. Più aperto e canonico, l’album si avvicina molto nelle linee melodiche all’opera dei Beatles della metà degli anni Sessanta, specialmente nella già citata Legend of a Mind il cui incipit è veramente Beatlesano, oppure nei cantanti di Best way to travel. Anche per il sound non si ignorano gli ormai cresciuti baronetti di Liverpool, con il sitar di un brano come Om che i Beatles avevano introdotto nella loro musica con un utilizzo similare già tre anni prima. Non dimentichiamo che siamo nel 1968, e che quindi anche se il progressive stava per esplodere (per molti l’anno convenzionale dell’inizio è il ’69) certe tendenze al sinfonismo non erano così automaticamente all’ordine del giorno. Si fanno notare così tutte le numerose parentesi strumentali, tra cui quelle di Visions of Paradise che riportano un po’ alle atmosfere di Day of Future Passed, oppure l’epicità di un brano come Voices in the Sky. Anche in questo caso l’edizione Deluxe è ottimamente curata, con un doppio cd quasi interamente di inediti per il quale vale la pena di investire il costo dell’edizione “lussuosa”.
Quello che a parere di chi scrive è capolavoro di progressive “classico” dei Moody Blues arriva qualche mese più avanti, e porta il titolo di To Our Children’s Children’s Children. Con questo disco i Moody riprendono la direzione musicale lasciata in sospeso con In search of the lost chord, avventurandosi in strutture più libere e soprattutto approfondendo la ricerca sonora. Già lo si intuisce dal rumoroso e caotico brano introduttivo, Higher and Higher. Ad un momento breve, acustico e melodioso come I Never Thought I’d Live To Be a Hundred segue uno strumentale aggressivo e determinato come Beyound. I brani non sono lunghi, ma il collage complessivo dell’album ricorda quello di una suite progressive. La musica è immersa in atmosfere sonore ricche e composite. Il gruppo esplora le potenzialità di studio e le sovraincisioni, sfiorando uno dei loro apici personali in termini di linguaggio progressive ma allontanandosi da un tipo di musica proponibile dal vivo. Con il successivo A Question of Balance, 1970, i Moody tornano nuovamente più verso la forma canzone, e verso arrangiamenti che potevano venire proposti verosimilmente e con successo - e questo è ciò che il gruppo fece - anche dal vivo. Siamo di nuovo davanti ad un risultato molto interessante perché nel produrre materiale originale la band è in grado di sintetizzare tutte le varie influenze a cui è passata attraverso, dal soul e Rythm & blues (It’s up to you ) , al progressive e folk acustico ( Don’t you feel small) al rock più classico. Il gruppo mette a segno anche dei buoni singoli nelle charts dell’epoca, come l’ottima traccia di apertura “Questions”. L’album è molto variegato, gli arrangiamenti curati, la scelta delle sonorità mai casuale. Anche in questo caso la ristampa Universal non è una deluxe edition ma si tratta di un unico CD con ben 6 bonus tracks. Sembra incredibile come da questa carrellata sui dischi dei Moody Blues del periodo 67-70 il quadro sia così positivo, senza un album che si separi negativamente dagli altri. Eppure con cinque dischi in soli tre anni questo è proprio ciò che i Moody Blues furono in grado di fare. Furono tra i primi a codificare un nuovo genere, seppero sviluppare contemporaneamente due direzioni musicali leggermente diverse, una quella di On the Threshold of a Dream sviluppata in A Question of Balance e l’altra quella di In search of the lost chord portata avanti in To Our Children’s Children’s Children, e seppero superare a testa alta le difficoltà iniziali costruendosi un posto di rilevo nella musica inglese che tutt’oggi conservano. Motivo per cui questo capitolo della loro discografia debitamente approfondito e ristampato dalla Universal è un mondo tutto da esplorare. Giulia Nuti |
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