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Yellowcards Lights & sounds Dedicated to you, hoping that are still listening… Ascoltai i Soft Machine a Roma, al Piper di via Tagliamento, il 24 aprile del 1972. Consultando in rete una accurata cronologia dei loro concerti ho verificato che quella fu l’ultima data del tour italiano, iniziato il 15 dello stesso mese al Palaghiaccio di Bolzano. Le date successive furono a Verona, Padova, Genova, Cardano, Imola e Bergamo. Che vergogna, penso a quanto potessero essere incazzati i napoletani, i baresi o i palermitani per non avere avuto la possibilità di ascoltare un concerto del genere. Prima di scendere in Italia avrebbero dovuto suonare al Rainbow Theatre di Londra il 12 marzo, ma il concerto fu annullato per l’improvvisa chiusura della sala. Invece scopro con piacere che subito dopo Roma andarono a Parigi per esibirsi, il 2 maggio, all’Olympia. Caspita! Dato che dal concerto di Parigi fu tratto il “Live in Paris 1972” io ho ascoltato le prove generali di quel concerto. E grazie alla lista dei brani di quel disco, pubblicato dalla Cuneiform, posso ricostruire quella che fu, probabilmente, la scaletta romana. La memoria è ancora buona, per fortuna, ma allora non conoscevo così bene il repertorio dei quattro e poi, non si andava ai concerti per prepararsi al Rischiatutto, si andava per esserci, per vivere, per sognare. La scaletta di Parigi comprende Plain Tiffs, All White, Slightly All The Time, Drop, M.C., Out-Bloody-Rageous, Facelift, And Sevens, As If , LBO, Pigling Bland, At Sixes. Brani tratti quindi principalmente dal Terzo e dal Quinto album, che sarebbe uscito, se non sbaglio, a giugno. Che non fossero stati eseguiti brani dal Quarto lo ricordo bene, perché, tornato a casa, non contento del concerto, ascoltai il disco per intero, così per ripassare, per non perdere le vibrazioni di quel pomeriggio. Si, il pomeriggio, perché allora il Piper proponeva, di solito, due concerti: uno alle 16,30 per gli studenti, e per quelli che, a 16 anni, non potevano ancora rincasare tardi, e quello principale alle 21. Era bello sentire la musica al Piper, stavi seduto a due passi dagli artisti, vedevi ogni movimento, ogni espressione. Io ero seduto sulla destra molto vicino a Ratledge. Hopper era incastrato tra le tastiere e la batteria, assorto, guardava soprattutto Mike. Al centro c’era naturalmente John Marshall, con la sua batteria e, a sinistra, Elton Dean, con sax alto, saxello e piano Fender. Non eravamo in molti, credo non più di un centinaio di persone. Credo di essere andato con il mio amico Andrea, uno che ne sapeva sempre una più di noi, uno che mi aveva fatto conoscere i Matching Mole e la Mike Westbrook Band. Aspettando i Soft Machine l’impianto di sala diffuse per intero Fetus di Franco Battiato. Ricordo che lo commentavamo piacevolmente: finalmente un italiano che faceva qualcosa di strano, elettronica raffinata e testi interessanti. Non ricordo invece presentazioni di sorta e credo che i quattro non pronunciarono una parola per tutto il concerto, non dissero neanche il titolo dei pezzi. L’atteggiamento era quello di musicisti classici, d’avanguardia, molto concentrati. Gelido era un aggettivo che si usava spesso per descrivere i Soft Machine: gelidi, impassibili e impenetrabili, una spettacolare e fantascentifica macchina musicale. Anche nell’aspetto erano molto omologati: occhiali scuri, basette e baffi, facce da professori di matematica un po’ pazzi e persi nei loro sogni. Credo che la cura dell’aspetto non fosse casuale. In quel periodo stavano cercando un punto di equilibrio (che non trovarono) dopo mille cambi di formazione e il loro destino era in parte simile a quello degli amici rivali Pink Floyd. Come quelli avevano perso con Barrett la parte più inquietante e imprevedibile della loro anima per volare lontano nel freddo della galasssia, così i Soft Machine avevano perso l’anarchico Daevid Allen, il dandy Kevin Ayers e il folletto trotzkysta Robert Wyatt e si nascondevano dietro il muro spigoloso e ombroso delle loro lunghe composizioni. Marshall era l’ultimo arrivato, chiamato a sostituire Phil Howard con il quale, infatti, coabita nelle due facciate del Quinto album. Sembra che Elton Dean non avesse gradìto il brusco allontanamento di Howard e infatti, pochi mesi dopo, abbandonerà anche lui, lasciando il posto a Karl Jenkins dei Nucleus. Fu un brusco cambiamento, dal suono dorato e vibrante del sax alto e del saxello ai timbri estremi e secchi dell’oboe e del sax baritono: meno improvvisazioni free e geometrie ancora più rigorose e implacabili, così avvertii allora il passaggio dal “Quinto” al “Sesto”. John Marshall ha dichiarato in una intervista di essersi trovato più volte, in quella primavera del 1972, a mediare tra Elton Dean da una parte e Ratledge e Hopper dall’altra. Dean era un musicista fortemente orientato verso il free, verso la forma aperta, mentre i due membri originari erano sempre più volti verso la ricerca, l’elettronica, il minimalismo. Stefano Pogelli |
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