“Forging a new acoustic sound that defies categorization while striking universal chords, Tin Hat makes freewheeling chamber music for the 21st century”
The sad machinery of spring è l’ottimo e affascinante nuovo album di Tin Hat, un ensemble di musicisti che con archi, fiati e chitarra si propone di forzare i confini tra i generi musicali forgiando la musica classica del nuovo millennio. E’ un progetto decisamente ambizioso, ma Tin Hat riescono a portarlo a termine con gusto, stile e un bel po’ di mestiere. Anche la separazione dal gruppo del membro fondatore Rob Burger non li ha fermati.
Oltre alla violinista ( e cantante sul brano Daisy Bell) Carla Kihlstedt e al chitarrista Mark Orton, il gruppo si compone di Ara Anderson (tromba), Ben Goldberg (clarinetto), Zeena Parkins (arpa e l’unica a non suonare mille strumenti oltre al suo).
E’ forse più facile descrivere il loro album partendo dalla musica classica che da altri generi musicali. The Sad Machinery of spring è infatti un disco prevalentemente strumentale, dove la pulizia e le dinamiche perfette dell’esecuzione rimandano molto più direttamente alla musica classica che al folk o al linguaggio della nuova musica acustica. Le composizioni, anche dove non hanno la complessità strutturale di un brano classico, sono veri e propri temi di musica classica , con armonie e linee melodiche che sembrano a tratti direttamente prelevate dal repertorio romantico ( Old World,The Book), mentre a volte guardano a giochi armonici un po’ più arditi.Certo è che la qualità degli arrangiamenti e della scrittura sono di altissimo livello.
Ma ciò che rende Tin Hat unici è la facilità con cui la loro “musica classica del nuovo millennio” viene immersa in altri contesti, che spaziano dal jazz al folk, dal rock alla musica da film.
Potrebbero ricordare i Dirty Three, se non che la loro musica è molto più colta e lontana dalle fascinazioni del pop.
L’unica pecca è una tale perfezione che può rendere a tratti l’album stucchevole, nella fusione tra musica classica e popolare manca un po’ il coraggio di sporcarsi le mani che invece è proprio dei linguaggi extra colti. Sorvolando su quest’aspetto, però, l’album è bellissimo.
Giulia Nuti
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