Avevamo lasciato Arboretum con il profondo Rites of Uncovering nel 2007 e li ritroviamo con un disco più vitale e organico che pur non allontanandosi da certi toni dark stoner del precedente si fa notare subito per la sua maggiore varietà compositiva.
Indicati come fra le miglior band di Doom Folk, il gruppo nato nel 2002 per volere di Dave Heumann, personaggio introverso e contorto, con Song of Pearl si presenta animato da una urgenza che sin dalle prime note di False Spring pare spingerli oltre i confini dei generi di riferimento.
Il tono grave, a tratti addirittura ancestrale, cantilenante di Heumann che arpeggia una chitarra baritono - marchio di fabbrica del suono della band - infonde all’album una uniformità che miscelata al suono corposo del gruppo rende Arboretum unici. Qui però si è voluto andare oltre: trucchi analogici, nastri rovesciati, effettistica antica e il contributo degli archi scritti dall’ex chitarrista Walker Teret rendono il disco irresistibile.
Heumann e Steve Stromheier rendono le composizioni assolutamente straordinarie con le loro chitarre: se più volte per Arboretum si è parlato di un recupero di una certa tradizione folk rock elettrico dei sessanta qui si troverà davanti a una tale dose di psichedelica che sarà difficile arginarla a parole. I due chitarristi paiono quindi lavorare proprio nella direzione di una maggiore uniformità delle parti, verso una compattezza che esuli dai ruoli come nel rave up finale del brano che apre il disco, vero manifesto dell’intera raccolta.
Che il suono del gruppo ruoti intorno alle sei corde è naturale come natirale è ricordare che l’altro progetto in corso d’opere di Dave Heumann, Human Bell, è un duo, con Nathan Bell(ex Lungfish), di chitarrismo psichedelico free form che non ha nulla da invidiare a Six Organs of Admittance di Ben Chasny.
Siamo insomma in un territorio di totale sperimentazione dove la struttura canzone viene presto spesso dimenticata ( si ascolti la coda di Down On The Fall Line fluttuante e senza riferimenti ).
Registrati con cura, attenzione e molti ammiccamenti a bei tempi andati da Rob Girardi, Heumann compie un altro dei suoi tipici tour de force: in fin dei conti questa è una band che ruota intorno a un solo uomo e a un uomo solo ma che no perde MAI l’identità del gruppo. Con giri di accordi circolari che qui e lì rimandano sia a gighe che a riff di hard rock ( Infinite Corridors con i suoi stop/start, il basso distorto e le due chitarre a guerreggiare) azzardiamo dire che siamo davanti a un uomo intelligente nella migliore accezione del termine che è riuscito a riversare nella band la sua personale visione della vita.
Resta da dire del finale del disco,il brano che forse farà ricordare definitivamente Song Of The Pearl per un bel pò. Heumann riscrive ( e non ci sono altri termini) “Tomorrow It’s A Long Time “ di Bob Dylan, caricandola di intimi significati. Qui è Dave che parla, non più Dylan .” Yes, and only if my own true love was waitin, Yes, and if I could hear her heart a-softly poundin, Only if she was lyin by me”. Il tempo pare fermarsi, ogni nota pesa una vita. Il viaggio continua verso territorio misteriosi. Il loro e il nostro. Come in un nuovo medioevo, facciamolo insieme. Avremo meno paura.
Hrundi V. Bakshi
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