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. | SPECIAL Hendrix 1969, Love or Confusion
Quando la Fender Stratocaster color panna cominciò a gemere il pubblico non credette alle proprie orecchie e lo stupore, comunque, non era dovuto ai troppi acidi o ai tre giorni di pioggia stordente. Quelle che stavano risuonando sopra il campo di Max Yasgur, nei dintorni di Woodstock, New York, erano le note sacre della nazione. Il boato che accolse i primi sapienti movimenti di James Marshall Hendrix, Jimi, il chitarrista nero che chiudeva un evento che era già diventato storia, non si spiega con il patriottismo, col tuffo al cuore che assale ogni americano di fronte allo Star Spangled Banner, l’inno nazionale. Già dalle prime note si capiva che l’esecuzione sarebbe stata diversa da quella delle tante bande ad ogni insulso incontro di baseball della contea. Il distorsore della “Strato” faceva piovere bombe dall’avvolgente melodia a stelle e strisce. Il National Anthem era diventato un qualunque bombardiere F-105, un dispensatore di morte. Non esiste un suono più crudo o più diretto per rappresentare quello che la versione Hendrixiana di Star Spangled volle dire nel 1969. Lo straziante prolungamento delle note, in caduta libera verso l’esplosione, ha rappresentato magnificamente le contraddizioni della guerra e il sogno della democrazia bruciato col napalm tra le foreste vietnamite. Se un Oliver Stone o un Kubrick avessero voluto scegliere una colonna sonora per i loro film avrebbero potuto montare sopra l’inno i suoni delle esplosioni e il battere delle mitragliatrici. Hendrix era arrivato prima di tutti e aveva avuto bisogno solo della sua chitarra. Lo Star Spangled Banner, più di Janis Joplin, di Joe Cocker, dei Jefferson Airplane, della chitarra sfasciata da Pete Townshend sulla testa del leader hippie nazionale sempre nel nome della pace e dell’amore, rappresentò il momento memorabile dei tre giorni, fedele ancora una volta, paradossalmente, al suo ruolo. Rappresentò anche l’apice della carriera di Hendrix, morto poco dopo. In Electric Ladyland, che spopolava per il continente, l’esibizione non era ovviamente presente. Ma idealmente è lì, a chiudere il cerchio, l’inno funebre del sogno americano e l’entrata del suo autore nel paradiso del rock. Matteo Vannacci |
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