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Intervista a Tito Schipa Jr.

Tito Schipa Jr. è sin dagli anni '70 di diritto tra i personaggi più importanti della musica italiana per essere stato il primo artista a mettere in scena un'opera rock in grande stile al Teatro Sistina. Era l'epoca di Orfeo 9, lavoro che venne ripreso poi su doppio lp e divenne anche un film prodotto e trasmesso dalla RAI. Orfeo 9, era l'ideale completamento di un percorso iniziato al Piper nel '67 con il progetto Then an Alley, in cui aveva selezionato 18 canzoni di Bob Dylan e, cucitele insieme, aveva dato vita ad una sorta di "Opera Beat". Lo spettacolo andò in scena al PIPER CLUB, dove Schipa lavorava come presentatore, subito ebbe un successo enorme ed un'eco internazionale. Questo fece sì che a Schipa si aprisse il mondo del teatro ufficiale, che lo vide assistente di Giorgio De Lullo, Giancarlo Menotti, Luigi Squarzina, Lina Wertmuller. Tuttavia quando la notizia arrivò all'orecchio dei manager di Bob Dylan, questi inviarono a Tito una lettera che lo diffidava dal continuare le sue rappresentazioni. Si dedicò quindi con grande impegno alla realizzazione di un'opera rock originale, e dalle ceneri di Then An Alley nacque Orfeo 9, idealmente ispirato al mito di Orfeo. Quest'anno ricorre il trentennale di questa prima ed unica opera rock completamente in italiano, tale ambizioso progetto era caratterizzato da tre vesti narrative diverse ma complementari l’una all’altra ovvero il live in teatro, il disco e il film. Orfeo 9 fu così l’occasione per farsi conoscere dal grande pubblico dove rivelò le sue grandi doti di autore e cantante, oltre a quelle già note di regista. Il battesimo di fuoco Orfeo 9 lo ebbe prima in teatro infatti debuttò al celebre Sistina di Roma e poi solo successivamente fu trasposto in versione cinematografica. Questo spettacolo
cercava di portare l'attenzione dei giovani sui temi dell'ecologia e del raggiungimento della felicità, facendo largo uso di lirche sostenute da una base orchestrale più che da interventi solistici degli strumenti rock. Tra gli interpreti più noti di quest'opera segnaliamo Renato Zero e Loredana Bertè che debuttarono nel mondo della musica proprio in questo contesto sperimentale. L’importanza dell’Orfeo 9 di Tito Schipa Jr risiede nelle sue doti eclettiche che lo hanno portato a fondere sapientemente i classici stilemi operistici e il gusto rock progressive tipico degl’anni settanta.
Sull'onda dei successi Schipa continuò il suo cammino da artista sperimentale e, dopo aver portato anche negli States i suoi spettacoli, negli anni ottanta pubblicò due veri gioielli, Concerto per un primo amore e l'ormai celebre Dylaniato. Nell'87 si chiuse il cerchio aperto da Then An Alley, di cui restavano solo due incisioni su nastro. Infatti grazie
all'interessamento ed all'incoraggiamento di alcuni amici Tito decide di pubblicare l'album DYLANIATO (It, Dischi Italia) raccolta di canzoni di BOB DYLAN da lui tradotte ed interpretate magistralmente; il disco fu presentato da Fernanda Pivano, storica amica di Bob Dylan a cui il cantautore è ancora oggi legato da una sincera amicizia. Tito Schipa Jr. sembra sentire davvero le liriche di Bob Dylan, le fa sue, interiorizzandole e tratta ogni testo con cura, senza snaturarli. Ascoltare oggi il disco è ancora un piacere perché il lavoro fatto dal cantautore italiano è il compimento di un percorso segnato da una profonda stima per l'opera del menestrello di Duluth. Nell'ascolto si nota come le celebri assonanze dylaniane restino immutate nel loro spirito originario, le rime sono precise e sempre misurate in base agli arrangiamenti dei pezzi originali. Anche la scelta delle canzoni è eccezionale, troviamo i temi più complessi dell'Universo dylaniano, un universo fatto di poesia (Girl From The North Country), dai toni spesso forti ed evocativi (Masters of War), quasi una visione parallela della realtà (Mr. Tambourine Man). Alla fine dell'ascolto si avverte come l'intero disco ha colto lo spirito, intriso da quel linguaggio surreale e venato di ironia che è il marchio di fabbrica di Dylan; il suo lavoro si discosta sia da quella che è stata la corrente beat che tradusse i primi pezzi di Bob con estrema facilità e con poco rispetto, sia da artisti quali Francesco De Gregori e Fabrizio De Andrè che pochi anni prima si erano cimentati con Desolation Row, traendone una delle cover in italiano più belle; tuttavia il loro fu un lavoro diverso, finalizzato ad una sola canzone. L'innovazione di Tito Schipa Jr. invece fu quella di incidere un intero disco con le canzoni di Dylan, cosa molto facile da pensare ma quasi impossibile nella realizzazione fedele. Il suo lavoro di traduttore fu cristallizzato quando fu contattato dall'Arcana per pubblicare l'opera Omnia di Bob Dylan con i testi tradotti dagli anni sessanta al 1985. Non furono capite o meglio accettate le sue traduzioni cantabili, perché si disse che snaturavano gli originali e che erano troppo libere e slegate dagli originali, tuttavia restano ancora l'unico esempio di traduzioni dylaniane cantabili. A tutt'oggi ancora nessuno è riuscito a superare l'immenso lavoro di Tito Schipa Jr.

Allora Tito, partiamo da lontano, ci puoi raccontare il passaggio dal beat di Then An Alley al rock quasi progressive di Orfeo 9?
Va di pari passo con il passaggio da un’epoca all’altra. Nel 1967 la mia musicalità era a uno stadio elementare, da studentello di pianoforte con lezioni private e da regolare strimpellatore di canzoni altrui. Solo che le mie preferite erano di Bob Dylan, che allora in Italia era un perfetto sconosciuto. Buttai giù una taccia delle 18 canzoni scelte legate tra loro a modo mio, secondo un’ideale struttura da melodramma (arie, recitativi, commento all’azione). Mario Fales vi sovrappose (benissimo) un testo inglese seguendo un mio canovaccio narrativo, e il tutto passò nelle mani dei Pipers, il complesso “stabile” del Piper Club, cui chiesi di rivestire pari pari la mia traccia con i loro arangiamenti delle canzoni di Dylan, quelli che eseguivano ogni sera nella balerona di via Tagliamento. Beat era l’epoca, beat era lo stile del compesso, beat fu l’opera. Nel 1972 l’aria generale era già progressive, le mie cognizioni musicali più evolute (avevo superato il più difficile degli esami Siae, quello da compositore) e ogni collaboratore portava un suo stile preciso, spesso più approfondito e specialistico del mio, da Bill Conti a ogni musicista coinvolto. Molti mondi a confronto, sotto la mia supervisione e il mio coordinamento ma con grande libertà creativa per ciascuno. Ovvio che il risultato prendesse una luce propria, era la sommatoria dei talenti di tutti.


Cosa avevi in testa quando cominciasti a scrivere Orfeo 9 e quali furono le ispirazioni principali?
Avevo in testa un teatro Sistina che mi era stato offerto a ventitre anni e l’incubo di non sapere cosa farci, visto che il progetto per cui l’avevo chiesto era naufragato prima di nascere. Orfeo 9 fu un invenzione disperata dell’ultimo momento, apparentemente non giustificata da nulla e senza alcuna base apparente. Solo più tardi compresi che razza di straordinaria serie di coincidenze e predestinazioni stessero dietro quell’improvvisazione. Ma questo, come molto altro, è raccontato nel “Making di Orfeo 9”, su www.titoschipa.it.

Che difficoltà hai incontrato nella fase preparatoria di Orfeo 9?
Migliaia. Non si sapeva chi dovesse scrivere il testo, chi la musica, chi dovesse interpretarlo. Io ero solo ideatore e regista, alla partenza. Poi dovetti per forza di cosa prendermi tutti gli altri ruoli. Man mano che l’opera nasceva, io mi trovavo a dovermi scoprire librettista, musicista, cantante e attore, e a fronteggiare l’incredibile sensazione di accorgermi che il risultato non era per niente male (altrimenti mi sarei protestato subito). Molti poi sono stati d’accordo. Altri che non lo furono troveranno in questa risposta una buona conferma alle loro riserve.

Che ricordo hai delle fasi di scrittura e come nacque l’idea di scegliere il personaggio mitologico di Orfeo per il tuo spettacolo?
Fu Orfeo a scegliere me. In quei giorni di decisioni estreme e dell’ultim’ ora la storia la buttai giù al volo sulla falsariga del mito, che conoscevo tramite le diverse riduzioni in musica dei secoli scorsi fino allo splendido Orfeo Negro di Camus. Ma ancora una volta solo più tardi capii che quel mito era davvero rappresentativo della mia generazione e dei suoi splendori e terrori. Da quando vidi questo parallelo cominciò la scrittura “cosciente”, ragionata in ogni dettaglio, dove ogni tassello andava al suo posto con incredibile precisione, quasi componendosi da sé.

Quale fu l’impatto con il pubblico della prima al Teatro Sistina? Come reagirono i giovani?
Delle sette recite in programma al Sistina quella cui potettero assistere i giovani fu solo l’ultima, grazie a un biglietto scontatissimo. Il teatro era gremito e il successo fu quasi isterico, ma il giorno dopo fummo costretti lo stesso a chiudere e, apparentemente, a dimenticarci del progetto.

Come hai gestito un gruppo di artisti di spessore tra l’altro con personalità artistiche differenti?
Tirando fuori il meglio di ognuno di loro, anzi lasciando che emergesse e limitandomi a coordinarlo con quello degli altri. Il bello del rock progressivo era che somigliava a una recita a soggetto. La traccia era importante, ma il contributo di ciascuno fondamentale. Non parlo solo di musica. La recitazione, il canto, la stessa conduzione di Bill Conti, tutto era improntato a uno schema aperto che a me, in fase di sovapposizioni, mix e montaggio, spettò poi chiudere al meglio di cui ero capace.

Le session di registrazione videro la partecipazione di musicisti del calibro di Joel Van Droogenbroeck e di Tullio De Piscopo. Quanto hanno influito nel sound complessivo di Orfeo 9?
Questi musicicsti, e altri non da meno, SONO il sound di Orfeo 9. E una parte altrettanto importante viene da Plinio Chiesa, l’ingegnere del suono che realizzò quella qualità, quella dinamica e quella pulizia che ancora mi sorprendono e che non mi è più possibile neanche ipotizzare, in tempi di digitale e di elettronico.

A livello discografico Orfeo 9 ha ancora un buon seguito, non essendo mai uscito di catalogo, come vedi oggi questa opera su disco e quali furono i suoi punti forza allora?
Be’, almeno la novità non ce la può disconoscere nessuno. Non si era mai sentito un vero e proprio melodramma filar via sul sound del nostro progressive. Lo stesso Tommy, dei Who, che era uscito come disco (non come teatrale) pochi mesi prima, non aveva la distribuzione classica “un ruolo – un interprete”, cui gli Who sarebbero arrivati solo più tardi, al tempo del film di Russell. Nella loro prima edizione il complesso intero cantava coralmente tutti i ruoli, senza distinzione, neanche di sesso.

Quali sono le connessioni con il rock e quali sono quelle con la musica classica, parlo quindi dell’opera lirica in Orfeo 9?
Del rock ha l’impostazione musicale, dell’opera quella drammaturgica, compresa la drammaturgia musicale, naturalmente, cioè i modi del raccontare una storia tramite l’evoluzione dei temi, la caratterizzazione dei personaggi mediante le note.

Cosa pensarono i coproduttori Garinei e Giovannini quando hanno visto per la prima volta Orfeo 9, certamente in controtendenza rispesto ai loro standard?
Dissero, fra il sorpreso e il divertito: “E’ bello, questo vostro Orfeo”.
Una frase che non dimenticherò più.

Dove si può scoprire la vera originalità a livello di sound in Orfeo 9?
Nella fusione vera e sentita, per nulla di maniera, dei modi e dei colori della musica ottocentesca italiana con le strutture ritmiche e le peculiarità timbriche del rock.

Quali sono i brani che meglio lo caratterizzano?
La grande ripresa del tema d’amore, per me, è l’esempio più preciso di quello che intendo, grazie anche all’incredibile talento di Bill Conti nel trattamento dei fiati, tipico della scuola americana.

Come mai Orfeo 9 incappò nei problemi di censura all’epoca?
Si parlava di droga. Tutta la narrazione verteva (nelle mie intenzioni) sulla descrizione dei meccanismi con cui si resta intrappolati e sulla messa in guardia contro il grande tranello. Ma bastò che se ne parlasse per eliminarci, i perché e percome non interessavano.

Tra gli attori-cantanti di Orfeo 9 c’erano due giovanissime star della musica italiana a venire parlo di Loredana Bertè e Renato Zero, come mai scegliesti proprio loro per Orfeo 9?
E chi altro potevo scegliere, avendoli a disposizione come amici e come artisti?

Tra le varie cose che hai fatto nella tua carriera hai tradotto magistralmente gran parte dell'opera di Bob Dylan in tre volumi pubblicati da Arcana (Mr. Tambourine Man). Puoi raccontarci come sei riuscito a rendere così bene in italiano il senso delle sue canzoni e le difficoltà che hai incontrato misurandoti con un repertorio così vasto ed importante?
Vi ringrazio di apprezzare il mio lavoro. Come saprete, non tutti lo hanno recepito con entusiasmo. Ma capisco bene chi non si riconosce nel mio modo di tradurre. Non credo possano esistere traduzioni che vadano bene per tutti. Chi ha accettato le mie dimostra innanzitutto di non tenere in gran conto (o di non averne bisogno) la letteralità severa. Sono sempre stato portato a "traslare" più che a tradurre. Ma è naturale, essendo io ineluttabilmente un creativo, e non uno scienziato. Penso sia più efficace una sensazione "riconoscibile" di una solo comprensibile. E per riconoscere uno stato mentale, un feeling, bisogna che questo sia espresso in termini, contesti e linguaggi che ci appartengono nel profondo anche a rischio che siano più lontani, apparentemente, dall'originale.

Con le tue traduzioni hai cercato di trasporre Bob completamente in un'ottica italiana; ne è un esempio il titolo della canzone "Highway 61 Revisited" in cui nella tua traduzione iniziale rendevi il nome della strada con "Firenze Mare". Quali sono i motivi di questa scelta ardita, ma sicuramente di gran pregio?
Infatti la prima strofa, e in modo simile le altre, terminava, nella versione non accettata dall'editore, con: "Abramo disse: allora, 'st'assassinio dove lo si va a fare? E Dio disse: un bel po' fuori laggiù sulla Firenze Mare!". Era il tratto d'asfalto che più frequentemente percorrevamo in tutti i nostri spostamenti, era la "nostra" autostrada da "on the road", quella che se eri del Nord o del Sud, indifferentemente, specie se musicista in continuo spostamento, a un certo punto ti trovavi sotto le ruote, proprio come la 61 americana. L'effetto comico dei finali di strofa così appariva nel modo giusto, mentre per un italiano "Autostrada 61" non significa, in prima battuta, proprio nulla.

Come ti sei comportato di fronte ai testi del periodo elettrico-acido, zeppi di riferimenti puramente americani e profondamente segnati da una poetica particolarissima per niente comune al panorama letterario americano? Sono i tuoi testi dylaniani preferiti o ami maggiormente un altro Dylan (quello "bucolico" country, quello religioso, quello "di protesta" etc...)
Se vogliamo accettare che quei testi non avessero rapporti stretti con la letteratura americana dell'epoca (ma forse Ginsberg o Corso obbietterebbero qualcosa) dobbiamo però dire che ne avevano con il modo di sentire universalmente condiviso dalla nostra generazione, tant'è vero che in una delirio di canzone come "115mo sogno" tutto ci è allo stesso tempo completamente estraneo ed incredibilmente familiare. Il mio debole comunque è per il Dylan epico-visionario, che al di là del tipo di accompagnamento musicale esprime una poesia "eroica", quella che ritrae il meglio dei nostri giorni e della nostra avventura: "Chimes of freedom", "Visions of Johanna", "It's allright ma" "Sad eyed lady of the lowlands", avventure dell'individualità che sfondano nell'universale e nell'eterno. Gigantesco.

Tradurre testi ermetici come Isis o Changing Of The Guards sarà stata un'impresa. Come sei riuscito a sbrogliare queste matasse ben ingarbugliate da Bob?
Isis non mi è mai sembrata ingarbugliata. Del resto se mi trovo davanti a un testo con forti ermetismi non mi sforzo di "capire" (sarei mai autorizzato poi a "spiegare"?) ma di mettermi nella stessa condizione visionaria e "sofferente" dell'autore. Confido nel fatto che se percepisco un'analogia fra la mia frase e la sua, una stessa ricchezza di "armonici" sia sonori che espressivi, al di là della razionalizzazione, sono sulla strada giusta.

Come consideri le canzoni del periodo religioso di Dylan, e quali difficoltà hai incontrato a misurarti su questi testi estremamente complessi?
Veramente i testi del periodo cristiano mi paiono tra i più semplici, direi banali, al punto di avermi irritato, qualche volta. Non farei l'errore troppo frequente di identificare completamente "religioso" con "cristiano".
Conosco pochi testi che esprimono la sensazione del divino come "I shall be released", che certo non appartiene al "periodo religioso".

Hai pubblicato anche "Dylaniato", un disco con cover in italiano delle canzoni di Bob Dylan. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a questa ardua impresa?
Le mie traduzioni "cantabili" risalgono agli anni '60, quando lo stesso Dylan aveva appena scritto gli originali. Tradurli è stato per me spontaneo, anzi, inevitabile. Quando poi negli anni '80 Vincenzo Micocci e Roberto Righini le hanno ascoltate per caso, la decisione di fare il disco è venuta da loro.

Dylaniato è diventato un disco culto della canzone d'autore italiana insieme ad un lavoro come Orfeo 9... Come vivi questa posizione diciamo di artista di culto?
Come uno che se l'è meritato (come si merita una contravvenzione...)

Ho sentito parlare di un opera rock dal titolo Gioia, che da un po’ di tempo aspetta un meritato lancio. Cosa puoi dirci a riguardo?
Work in progress. Ci tengo moltissimo. Ne parlo pochissimo.


Salvatore Esposito



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