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Gli amici di Norah

Il successo della Jones ha aperto le porte a dei valenti che sarebbero altrimenti rimasti sconosciuti. Siamo forse davanti alla nuova magia della canzone pop Neyorkese? Ha indagato per il Popolo del Blues il nostro agente venuto dal freddo, Ernie d Brown.

Quando Norah Jones si presentò sul mercato internazionale non troppo tempo fa convincendo tutti con la incoraggiante, ma inconsistente grammy nominè ”don’t know why” l’industria discografica tirò un respiro di sollievo. Ecco un nome nuovo, una canzone semplice che avrebbe fatto contenti tutti, un pò di fiato per l’asfittica situazione circostante. Ma gli avvocati che sorvegliavano l’andamento delle cose avevano avuto il loro bel da fare per nascondere velocemente nei propri più sicuri armadi alcuni ingombranti scheletri che avrebbero potuto vanificare il lavoro di strategic marketing così diligentemente svolto. Perché Norah Jones a New York City non era the new face in town e tutti lo sapevano.
Si rischiava col successo del brano e dell’album, insomma, di aprire – in nome del successo di cassetta – una falla da cui sarebbero potuti venire alla luce i trascorsi di una giovane ragazza la cui unica leggerezza era stata quello di concedersi troppo, troppo velocemente, senza attendere la prima legge del mercato musicale americano e newyorchese in primis: get a lawyer! (ingaggia un avvocato).
L’impressione che l’industria voleva dare della Jones era quella di una artista sbocciata come una rosa tra le rocce, un piccolo miracolo di purezza e semplicità ma intanto Norah aveva passato almeno 3 anni della propria vita saltando da una session a un’altra e da una serata a quella successiva scapicollandosi giù per le scale del condominio dove viveva sulla 13esima strada, poco conscia che qualcuno avrebbe poi avvallato un diritto su ciò che lei andava cantando o registrando, seminando tracce che avrebbero reso più difficile il lavoro a coloro i quali trattano la musica dietro le scrivanie. Quando parli con quelli delle case discografiche americane oggi, una cosa deve essere chiara fin da subiti: non li devi infilare nei casini! Non hanno tempo da perdere, non hanno soldi, hanno paura per la loro personale credibilità. L’unico errore della Jones era stato quello di cantare qua e là, con qualche amico che aveva per le mani delle piccole produzioni, come piccolo era il mondo che all’epoca le girava intorno.
Affidatasi a un manager di spessore che ravvide in lei un potenziale da sfruttare prima che ingrassasse (drammatica tendenza della ragazza!) non si poteva però più tornare indietro.
Jim Campilongo si accende l’ennesima sigaretta. A Lui adesso non va più tanto male. Sul muro del salotto ha infisso al muro con due puntine dalla testina rossa una mia precedente recensione del suo più recente disco, ”American Hips”, che recitava più o meno così “Jim Campilongo is a minor genius....”. Jim è un chitarrista fenomenale, suona una musica originale sotto tutti i punti di vista: immaginate Roy Buchanan che interpreta Ennio Morricone dopo che quest’ultimo abbia presa una doppia dose di acido lisergico. Egli vive non distante da dove mosse i primi passi Norah Jones ed è emigrato qui da San Francisco “Sono italiano- mi dice orgoglioso- ma non sono mai stato in Italia. Mi dicono che il mio cognome è quello di un piccolo paese ma non so altro. A San Francisco stavo bene ma furono Medeski, Martin & Wood a convincermi di venir via da lì. Tante promesse e niente di concreto. Dopo anni di anonimato (e 3 straordinari dischi) almeno avevo la possibilità di esibirmi altrove e vedere facce nuove. A New York City la prima persona che, dopo essermi esibito, mi ha rivolto per prima la parola fu Norah Jones. E’ tanto che cerco qualcuno che mi faccia cantare “Sweet Dreams” di Don Gibson – mi disse – e io risposi che non c’era problema. Don è sempre stato uno dei miei preferiti e la figlia Meridian Green (incidentalmente moglie di Gene Parsons, ex Byrds) una vecchia amica. Almeno –termina Campilongo – qualcuno mi aveva dato subito una spinta. Registrammo due pezzi in casa di un amico e intorno a quelli nacque l’album. A San Francisco erano tutte pacche sulle spalle e niente più. Qui la gente combatte all’arma bianca per un posto al sole. E oggi suono sempre più frequentemente alla Knitting Factory. E per me è un passo avanti!”.
Peter Malick è un altro dei cognoscenti della Jones che la ragazza ha dovuto “dichiarare” a avvocati e manager per dirimere un pò di questioni, il suo disco “New York City”(Koch/Edel) ha dovuto aspettare parcheggiato un bel pò per non intralciare la strada dell’album di Norah ma Malick non può certo dirsi insoddisfatto, in una situazione differente da quella di oggi il suo cd avrebbe anche potuto rischiare di restare chiuso nel cassetto per chissà quanto tempo mentre oggi si tenta “to cash in” in qualsiasi modo. Nel disco di Peter la Jones fa un pò tutto quello che serve a mettere un buona collezione di canzoni fra tanti in orbita anche se quando Malick, chitarrista e cantante, passa alla voce solista tutto scende di un gradino. La Jones che ascoltiamo qui è molto più disinvolta di quella che il suo album d’esordio ci ha fatto conoscere. Siamo, infatti, nel 2000.
The Living Room il locale dove Peter Malick ha visto la Jones la prima volta cantare una canzone di Dinah Washington non è più grande di un ampio salone di certi appartamenti di Upper West Side con la differenze che oggi per entrare devi prenotare.I tipi della Koch records sono sicuri che prima o poi ce la faranno a far emergere Malik. “ A lui – mi dice Campilongo – è andata in maniera differente da me. Io non ho brani di punta come la canzone “New York City” ( che Campilongo afferma preferire a “ ...tutto il disco di Norah messo insieme...” ) e far cantare Norah è stato meno difficile di quel che si può pensare. Quando la ho incontrata era già famosa, si è trattato solo di parlare con gli avvocati, ma per Peter che ha precorso i tempi è stato tutto un pò più complesso...”.
La saga non termina qui; Jesse Harris è il nome dell’autore di “don’t know why” e di altri quattro brani del disco di Norah Jones. Harris, 34 anni, la voce fragile che si spezza tra una strofa e l’altra, guida un gruppo che si chiama The Ferdinandos, in omaggio ai gruppi vocali dei tardi Cinquanta, è oggi il più serio antagonista di Norah. La rivista Mojo ha definito “the Secret Sun” (Blue Thumb/Universal), quarto ed ultimo album del nostro, “terrific”.
Harris ha la tempra di un Jackson Browne di oggi ma con accompagnatori men fantasiosi e uno spessore vocale limitato. Questo primo album per una etichetta importante lo ha fatto notare subito in città e una sera il mio amico Jono Manson mi racconta una storia che la dice lunga sui tipi in questione come Harris” il suo primo produttore era Josh Deutch mio compagno di classe al liceo. Visto che quelli della mia classe sono o morti o famosi lui è giocoforza nella seconda categoria. Oggi, e già da un pò, va di moda che gli avvocati ebrei di New York City investano soldi producendo dischi. E’ solo un modo per ampliare la fascia dei clienti. Invece di pagare un P.R. produci un disco! Forse, addirittura, spendi meno. E rischi anche di guadagnarci….”
Quella che descrive Manson è una prospettiva che riguarda anche l’industria cinematografica, anzi, da lì questa abitudine proviene. E Campilongo prosegue”…ho scoperto che a New York funziona una sorta di tacito accordo fra i musicisti di un certo giro chiamiamolo “minore” e cioè scambiarsi le composizioni. Una pratica vecchia che però con la totale mancanza d’etica non vedevo più praticare da tempo. E’ che qui tutti sono un pò impauriti- conclude Campilongo pesticciando la centesima Marlboro – e forse si difendono così.In California l’attitudine era questa una volta, ma tutta basata su altri principi e poi l’attitudine californiana è un’altra cosa…”.
Certo è che camminando per New York City alla fibrillazione rock & roll adrenalinica di sempre e dei nuovi volti noti si è affiancata una più riflessiva visione della canzone d’autore non distante da certe istanze dei tardi settanta quando apparvero sul mercato artisti come Willie Nile e Steve Forbert e la piccola Caroline Mas o i più crepuscolari autori legati al Cornelia street cafe. Forse i gruppi usciti dagli scantinati hanno dato la forza anche a quelli più riflessivi (e musicali) di trovare un posto al solo e, in alcuni casi, come quello della Jones, di farcela velocemente, prima di diventare un volto visto e rivisto sulla scena.
La Jones forse non lo sa ancora ma da tutto ciò trarrà un grande beneficio; si troverà meno sola quando le case discografiche faranno i capricci perché la sua carriera ha intrapreso “…una strana curva…”, scoprirà di essere davvero parte di un piccolo grande movimento e non solo l’artista da cinque milioni di copie di oggidì ( chi si ricorda di Eddie Brickell con un solo successo tutto a uso e consumo dell’industria?) e troverà spazio in manifestazioni di maggior spessore come il festival Bonaroo che si svolge tutti gli anni a Manchester in Tennessee la terza settimana di giugno che la ha già ospitata. In definitiva sono tutte buone notizie, mi viene da dire ai miei interlocutori. Ma tutti proprio tutti, anche quei cantautori che incontrati durante il mio viaggio non avevano proprio niente a che vedere con la Jones, pur vivendo nella stessa città, mi fanno capire che oggi come oggi vivere a New York City è più una esigenza professionale che una scelta. E che le cose non cambieranno ancora per un bel pò.

Ernesto de Pascale

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