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Ed Harcourt Strangers
(Heavenly/Emi)
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Il cantautore Ed Harcourt arriva al secondo album sulla scia di un buon esordio che ce lo aveva segnalato per originalità e organicità musicale. In questo “Strangers” Ed è addirittura più inglese che nel primo album (?) e, grazie a un gruppo affiatato che lo assiste nella realizzazione e nella produzione di questo disco, opta per un suono più da gruppo che da cantautore; grande attenzione alle sonorità e alle sfumature e una certa confidenza nei propri mezzi fanno il resto. Harcourt è un giovane di talento ma non proprio un ragazzino e lo si sente da come affronta i brani migliori che godono di una cognizione varia e completa dello stile canzone d’autore che in Gran Bretagna sta trovando una forte rispondenza negli ultimi anni, nuova frontiera musicale, ben diversa dall’approccio dei primi settanta. Un po’ come Josh Rouse, ed Harcourt si rifà palesemente ai settanta : voci compresse, ritornelli esplosivi alla Bowie, chitarre acustiche che inseguono le elettriche, un misurato uso del piano verticale e, come per molti cantautori ovunque al mondo, l’ombra di Neil Young che aleggia. Ed non è il primo degli inglesi, infatti, che, forte delle influenze citate, strizza l’occhio al canadese che la nuova generazione di cantautori pare aver preso ad esempio. Harcourt è claustrofobico quanto basta senza essere nichilista ma dal nostro osservatorio è difficile dire quale possa essere il suo pubblico. Visto dal vivo 2 anni e mezzo fa allo Sheperd’s Bush Empire lo ricordiamo applaudito da un pubblico di universitari e osservato con attenzione dalla critica. Oggi, con questo “Strangers” dimostra ancora maggiore confidenza in se stesso: Difficile dire se abbia fatto un passo avanti o meno, il disco è ben scritto e lo si apprezza dopo alcuni ascolti. “Born in the ‘70” in tono col titolo, “Let love not weigh me down“ con i suoi toni drammatici, “something to live for” interpretata al harmonium che introduce “The trapdoor” un brano che ricorda nel suo incipit vocale e chitarristico “Vincent“ di Don mcLean, la disperata “loneliness” a fronte delle parole piene di speranza della conclusiva “kids” contribuiscono alla varietà di un disco che conferma Harcourt come una certezza della scena cantautorale britannica odierna e ce ne consegna una percezione più solida rispetto agli esordi.
Ernesto de Pascale
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