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Tom Waits Real Gone
(Anti )
Si entra in “real gone“ ed è come camminare sulle puntine da disegno. La musica pare essere uscita da “Tour Mask Replica“ di Captain Beefheart e ci vuole un paio di minuti per capire come gira il brano d’apertura, “top of the hill“. Disco primitivo questo album targato 2004 per uno degli artisti più amati degli ultimi decenni con un trend sempre in salita. Se da giovane Waits giocava a parer vocalmente più vecchio da qualche anno a questa parte cerca di apparire più antico possibile e lo sta facendo in nodo moderno e soddisfacente. Ha infatti un proprio suono, corrosivo, abrasivo, il graffio di mille unghie su una lavagna, che si ciba di Blues e strumenti giocattoli o bastardi. Ne esce fuori un disco che quando vola in alto brilla per ispirazione e emozione come in “Sins of the father “ dove l’andamento lento di una vecchia carovana circense sembra snodarsi attraverso una sceneggiatura cinematografia scritta ad arte. Ecco così che dietro l’apparente casualità di strumenti il cui suono sembra quello procurato quando si butta qualcosa per terra, emerge una visione a cui ci si deve solo attenere ed avere le palle per starci dentro.
Prendete “Shake it“, un west coast blues di quelli di una volta la cui ambientazione sonora è apparentemente difficile da decifrare, immaginate una stazione dei primi anni cinquanta americana in onde medie ascoltata - tanto per citare un luogo esotico e lontano - dall’Italia: il risultato è frutto davvero di un lavoro di dedizione , Les Claypool dei Primus al basso e Marc Ribot alla chitarra non sono due tipi che si fanno convincere tanto facilmente, e sorprende la perfetta imperfezione di tutto quel che si ascolta.
Chiaro che per questi musicisti l’album di Tom Waits è una occasione di una vacanza all’inferno e ritorno senza bruciarsi il culo: metteteci l’autorevolezza di Waits, la voglia per loro di partecipare a un altro disco di cui ci ricorderemo per un pò, l’umana curiosità, che si innesca automaticamente quando uno come lui ti convoca, di stare a fianco a un genio semi recluso per capire cosa gli passa nella testa in quel momento. Tutto convoglia in un’opera dai tono biblici ed epici pur nella loro basica semplicità. “Don’t go into that barn” con Tom che si campione e diventa human beatbox di se stesso potrebbe essere uscita da “Mule Variations “ mentre, per i fans della prima ora piace notare che i testi tornano a certe poetiche degli esordi.
Appurati che certi pattern musicali di Tom Waits appartengono al blues degli anni venti e hanno riferimenti arcaici (“How’s it gonna end“) essi parranno nuovi al pubblico dell’ultima ora e perfettamente in tono ai più adulti.
E lungo lo svolgimento del disco escono fuori le meravigliose debolezze di questa specie di mostro che mostro non è pur avendo voglia di farsi riprendere come tale, di un Tom Waits umano che ha tirato dentro la sua vita musicale anche il figlio Casey ( sempre un rischio, per entrambi, padri e figli…) e già da un po’ la moglie co - autrice.
Potremo perciò assistere fra un po’ di anno a un massacro tipo quello di Fart Waco in Texas? Una specie di setta, quella dei Waits, sola contro il resto del mondo ? O forse il dramma della follia con moglie e figlio che massacrano il padre? Chissà. Dobbiamo attendere solo il prossimo disco per sapere come continua la saga dei Waits. Al momento, non vogliamo sapere. Ci sono storie abbastanza agghiaccianti in questo per stare svegli a notte fonda con una candela accesa, per non aver paura ascoltando la storia di lui che la veglia, morta già da un pò, in “ Dead and lovely“.
Ernesto de Pascale
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