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R.E.M. Around the Sun
(WEA)
Basta il primo ascolto di Around the Sun, tredicesimo disco dei REM, per avvertire la sensazione di un cerchio che si chiude. Sulla loro fama planetaria, che sarà ulteriormente alienata da un lavoro privo di singoli trainanti, ma anche sul contratto milionario di cinque album che all’epoca fece scalpore e ironicamente ne segnò il declino commerciale, un contratto che si avvia oggi alla conclusione, lasciando credere che il gruppo si troverà presto a riflettere sul proprio status; se è vero che i REM sono tornati ad essere un gruppo di culto, sia pur decisamente allargato, è bene che inizino a scrollarsi di dosso la dimensione ormai stretta di rockstar planetarie. In realtà l’unica notizia che conta è che Around the Sun è il primo disco veramente debole del trio di Athens. Debole nel concetto, che gira pigramente attorno all’11 Settembre, debole nell’incapacità di stabilire un quadro preciso del mondo che cerca di descrivere, debole nel volersi ostinare a maneggiare sonorità elettroniche posticce e vagamente datate. Debole anche a partire dalla copertina, uno sfocato con le tre sagome di Stipe, Buck e Berry in movimento, come se fosse scelta ad hoc per rappresentarne l’attuale svogliatezza. C’è l’intento dichiarato in ogni intervista di esplorare la ballata e solo quella, ma manca il coraggio infuso in Automatic for the People, quella forza che durante il periodo dell’apice commerciale andava a frugare senza timori nelle ascendenze arcaiche della musica americana. Leaving New York apre dunque le danze con un riff di indubbia bellezza, che prima rimanda ai gloriosi ermetismi di un tempo e poi finisce a fare i conti con un ritornello trito e ritrito. Electron Blue è costruita su un giro di piano che rimanda pericolosamente a At My Most Beautiful (da Up, del 1998) e quindi di nuovo ai Beach Boys, ossessione diffusa negli ultimi anni del gruppo, un deja vù che si ripropone anche durante Make It All Ok. Tutto è diventato maniera, come l’apparizione del rapper Q-Tip (ex-A Tribe Called Quest) in coda a The Outsiders, forse un tentativo di mantenerla digeribile per le radio, di fatto un epilogo inutile che certo non salva dal dimenticatoio questo strano funk all’acqua di rose. Elettronica posticcia, appunto, e non a caso sono proprio i pezzi meno sovraprodotti quelli che tentano di salvare la diligenza. Sia la rarefatta The Worst Joke Ever che il blando incedere country & western di Final Straw (già edito nel 2003 come canzone di protesta contro la guerra in Iraq) guardano in direzione di certi vecchi capolavori, quando i nostri azzannavano con brama la tradizione folk, mischiandola coi furori punk e le reminescenze psichedeliche che forgiarono poi un suono estremamente distintivo. Troppo poco per promuoverli, se qua e là (Around the Sun, Aftermath) Stipe decide di stiracchiare le proprie doti vocali ben più del dovuto. Spiace affibbiare la parola fallimento ad una formazione tanto importante, ma la mancanza di visione che Around the Sun mette in mostra è sconfortante: l’auspicio per il futuro è quello di ritrovare un gruppo capace di rimettere in carreggiata la propria capacità di scrittura e scrollarsi di dosso le paranoie contemporaneiste che da tempo lo attraggono pericolosamente.
Bernardo Cioci
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