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Joe Cocker

Mad Dogs & Englishmen



L’odore acre delle canne sale nell’aria già soffocante del cinema pieno fino all’inverosimile senza aria condizionata. Il fascio luminoso emesso dal proiettore è quasi solido, lo potresti bucare con uno spillo. Nessuno però si lamenta perché troppo impegnato ballare per i corridoi o a seguire a tempo la musica che, sullo schermo, è eseguita da uno scalmanato gruppo di cani pazzi e uomini inglesi. Ad un certo punto il giovane proezionista scende a ballare con in mezzo al pubblico dimenticandosi dell’intervallo. Alla fine d’ogni canzone si alzano gli applausi. Gli epiteti e i lazzi si sprecano. Sul pezzo lento parte – per i più fortunati – il corteggiamento.
Se, come professa il proverbio “tutto il mondo è paese”, qualcuno fra i lettori deve aver conosciuto bene questa scena e averla sperimentata sulla propria pelle da qualche parte in Italia, in Europa, nel mondo.



Il film “Woodstock” di Michael Leigh aprì nel 1971 un’irripetibile stagione di “docu-film” rock con velleità cinematografiche attraverso cui sono passati molti grandi futuri registi che svolsero una profonda opera di divulgazione di certi artisti impossibile altrimenti applaudire dal vivo, specialmente in quei paesi dove il circuito di concerti era solo in fase formativa e sperimentale.

Ricordiamone alcuni: “Stomping ground”, un festival olandese a cui parteciparono tutti, dai Pink Floyd a Captain Beefheart ai Jefferson Airplane sotto la pioggia battente, il lungometraggio sul festival dell’isola di Wight edizione 1970,” Celebration at Big Sur” con Crosby, Stills, Nash & Young, “Monterey Pop”, “Concert for Bangla Desh” dal concerto omonimo organizzato da George Harrison nell’agosto 1970 a NYC e fra breve su dvd, “Gimme Shelter” con gli Stones, “Glastombury Fayre” dall’edizione 1971 del festival britannico omonimo, il canadese “Festival Express” con Janis Joplin, The Band, Greateful Dead, Flying Burruti Brothers, Buddy Guy & Junior Wells e altri, restaurato e pubblicato recentemente su dvd.

Un titolo però svettava, nel nuovo “genere” cinematografico, per energia e forza fin dalla colorata locandina che risaltava bene tra i flani dei mesti quotidiani di allora e per la spumeggiante musica e per il trasandato e allegro caravanserraglio che presentava. Il film documentava lo spaccato di vita di una breve (e peraltro molto improvvisata e dell’ultima ora) tournée statunitense di un cantante Rhythm & Blues del nord d’Inghilterra, assurto a celebrità esibendosi al festival di Woodstock dell’anno precedente, Joe Cocker. Proprio lui pensò bene di nominare quel singolare dream team ”mad dogs and englishmen”. Nessun altro nome poteva essere più adeguato!

“ Fu un’avventura unica nel suo genere e irripetibile–mi confessò qualche anno fa Joe- e divenne realtà per una serie di fortuite coincidenze. Erano tempi molto convulsi ed anche in America non se ne sapeva molto su come organizzare in maniera appropriata una gran tournée con spostamenti complessi e logistiche tutte da scoprire. Diventammo, noi come molti altri, un po’ le “cavie di noi stessi””.

“Mad Dogs & Englishmen” deve la sua fortuna più alla capillare distribuzione cinematografica fruita all’epoca che all’imponenza del tour –solo una manciata di date fra i molti altri impegni degli artisti coinvolti- ma il film bastò a far il giro del mondo e solidificare la percezione di Cocker nell’olimpo del rock, dopo il successo presso la fattoria di Max Yasgur a Woodstock.

Per Joe Cocker quegli ultimi dodici mesi erano stati traumatici. E’ lui stesso a raccontarli:” Solo pochi giorni prima della esibizione con la mia band, The Grease Band, a Woodstock, ci eravamo esibiti nel più grande concerto della mia carriera fino a quel momento come headline, nella mia città natale di Sheffield, una città di operai. Dopo anni di duro lavoro su e giù per la Gran Bretagna con i miei due primi album da solista, stavo conquistando un posto al sole. Ben 600 persone acclamarono il mio ritorno a casa. Sapevamo che in America saremmo andati a suonare in un imponente open air festival ma come potevamo aspettarci ciò che vivemmo a Woodstock?. Dopo tanti anni lo confesso – ammette- mi ci vollero molti mesi per riprendermi…”…e molte bottiglie di brandy, aggiungiamo noi, la bevanda preferita di Cocker all’epoca.

11 marzo 1970. Joe Cocker vola a Los Angeles con l’intenzione di riprendersi dalle troppe emozioni raccolte negli ultimi mesi, e formare un nuovo gruppo con cui esibirsi durante l’estate. La sua band fino a quel giorno, The Grease Band, quella con cui aveva registrato il suo secondo album, “Joe Cocker” e il singolo “Delta Lady”, guidata dal chitarrista Henry McCulloch è rimasta a Londra, preferendo l’ingaggio come orchestrali nella registrazione di un musical, piuttosto che seguire il cantante di Sheffield, non convocato dai produttori della nuova opera per le registrazioni della stessa. Il musical si chiama Jesus Christ Superstar.
Solo il tastierista Chris Stainton, braccio destro di Cocker sin dal 1966, segue Cocker a Los Angeles.

Cocker, giunto nella città degli angeli, incontra una situazione ben lontana dalla sua bonaria visione delle cose. Il manager Dee Anthony (un fokloristico personaggio perfettamente rappresentato nel film “Almost Famous” e responsabile dei successi degli Humble Pie e di almeno una parte dell’attività della PFM in America) si presenta a lui il primo giorno prospettandogli un tour ”lampo” da portare a termine in meno di 3 mesi, per non incorrere in problemi inerenti a permessi di lavoro.
La fretta di Anthony è rinforzata da impegni pregressi che obbligavano Joe a rispettare un contratto – firmato a suo nome e non a nome del gruppo immediatamente dopo Woodstock ! – e che prevedeva il buon fine dello stesso entro l’estate 1970, un contratto che Anthony aveva rilevato dal precedente manager del cantante di Sheffield e passato all’americano senza consultare l’artista.

Cocker, la cui sensibilità è ben spiegata dalle parole del produttore Glyn Johns che aveva lavorato con Joe per il suo secondo album, ”Joe Cocker”, piuttosto che pagare di tasca sua, non si perde d’animo e accetta.

Glyn Johns:” Joe è un onesto lavoratore, un uomo venuto su da una famiglia di minatori ed è un responsabile professionista. E’ uno dei migliori, se non il miglior, cantante di rock & roll sulle scene britanniche. Ci fu una mutazione incredibile dentro di lui fra essere il cantante in una band, The Grease band, ed essere il leader di un baraccone messo insieme all’ultimo momento. Non si sarebbe ripreso per molti anni…”

Torniamo ai fatti: 13 Marzo 1970. E’ passato un solo giorno dall’incontro con Dee Anthony e, dopo varie opzioni prese in considerazione con Stainton, Joe Cocker propone di contattare il pianista e arrangiatore Leon Russell, cresciuto alla scuola di Phil Spector, il cui lavoro con Delaney & Bonnie, specialemente nel brano “In the Ghetto”, aveva molto colpito il cantante.
Il pianista – che intravede nell’ingaggio una buona occasione per fare un passo avanti nella sua personale carriera vista la nascita della sua personale etichetta, Shelter, accetta ed arrangia una formazione di una decina di musicisti e coristi ( molti i doppioni) che inizia a provare immediatamente negli studi di Hollywood della A&M, l’etichetta statunitense di Cocker e, incidentalmente, anche quella che licenzia la Shelter di Russell. Già nella prova del 17 marzo la banda è in grado di registrare e dare alle stampe un primo singolo, “The Letter/ Space Captain”)

L’entourage è adesso composto da 36 persone fra musicisti, 3 tecnici audio, due secregatie, 3 tecnici, managers, moglie, amanti, vari figli e animali erranti.
Il nome è, per altro, ben appropriato e sufficientemente trasandato ed esotico per colpire l’immaginazione del popolo del rock dell’epoca: Mad Dogs & Englishmen.

Si parte!

Il 20 marzo 1970, filmata da una troupe di 5 operatori la banda debutta con grande successo a Detroit. Il concerto è un successo sulle pagine di tutti i giornali ma Leon Russell è, comunque, perentorio, a fine serata, e assale la band affermando a voce alta che il gruppo non gira e che non ha funzionato un cazzo! Vecchi trucchi da old school trainer che ancora oggi funzionano!
27 e 28 Marzo 1970. Le cose vanno meglio la settimana dopo al Fillmore East di New York City, tanto quanto basta a fermare su nastro le due serate ed estrapolare il materiale che diventerà il doppio album dallo steso nome della band.
16 Maggio 1970. Dopo un ultimo trionfale concerto a San Bernardino, la compagnia si scioglie fra pianti, lacrime, drammi amorosi e- è un classico- scazzi.
Leon Russell e Joe Cocker, sciogliendo la formazione, tirano, ognuno per motivi diversi, un respiro di sollievo.

La formazione di questa breve tournée resterà nella storia come uno dei primi super gruppi dell’epoca; molti dei musicisti coinvolti riappariranno da lì a poco in altri grandi eventi. Diretti da Leon Russell suonarono: Chris Stainton all’organo e al piano, Don Preston alla chitarra ritmica (che canta “ Further Up on the road” nella versione de luxe appena pubblicata )Carl Radle al basso, Jim Gordon e Jim Keltner alle batterie, Chuck Blackwell e Sandy kenikoff alle percussioni, Bobby Torres alle congas, Jim Price alla tromba, Bobby Keys al sax tenore. Il coro era composto da : Rita Coolidge, Claudia Linnear ( che nella edizione de luxe canta “let it be”, Daniel Moore, Donna Weiss, Pamela Polland ( già solista accompagnata nel suo album solista dagli sconosciuti Little Feat), Matthew Moore (l’autore di “Space Captain”), Danna Washburn( futura moglie di Keith Goodcheaux e componente da lì a un paio di anni dei Greateful dead), Nicole Barclay, Bobby Jones.

Nel 1998 incontrai Bobby Keys nel backstage di un bel concerto della Robert Cray band al Concord Pavillion, 60 miglia a sud di San Francisco. Erano troppe le domande da porre a questo colosso del sassofonismo Rhythm & Blues che ammise di buon grado il suo amore per Gene Ammons, Jimmy Forest e Sonny Rollins. Ben chiara fu la premessa però: “ …dei primi anni settanta non ricordo nulla, ho un buco nero nella memoria. Mad Dogs & Englishmen? Se non vedevo il film non ricordavo neanche di aver partecipato a quel tour ( 2 mesi 2 !…) e di certe session in cui ho suonato all’epoca il ricordo è fermato solo dalle registrazioni. Beh!, comunque a rivedere il film ho l’impressione che ci divertimmo proprio tanto”.

La sezione ritmica, riascoltando oggi, resta la chiave della formazione di Mad Dogs & Emglishmen: Carl Radle e Jim Gordon, già con Delaney & Bonnie nel 1969- assieme ai quali incisero “Motel Shot”, parte di “Accept no Substitute” e il concerto catturato su nastro a Croydon, a sud di Launder- erano la sezione ritmica più richiesta del momento. Il tour con Cocker e Leon Russell seguiva, infatti, di pochi mesi gli impegni con Derek & The Dominoes di Eric Clapton e le incisioni di Carl Radle per “Naturally” di J.J.Cale. L’aggiunta del granitico Jim Keltner, in una soluzione a due batterie riproposta da Russell anche al concerto per il Bangla Desh, resero la ritmica del tour ancor più solida e granitica.
Non di meno, l’atmosfera di festa mobile, barcollante ma miracolosamente in piedi, rimane intatta per tutta la durata del disco.

Joe Cocker: “ dopo il tour mi rifugiai in una villa di Laurel Canyon e ci rimasi praticamente per tutto il resto dell’anno – mi racconterà faccia a faccia ma senza mia guardarmi negli occhi – completamente fuso e schifato dalle macchinazioni cui ero stato sottoposto e dalle pressioni subite. Il piacere di quel tour lo avrei riscoperto solo anni dopo guardando per la prima volta da solo il film che per anni mi ero rifiutato di vedere. Poi, alla fine dell’anno, feci le valigie e volai a casa a Sheffield dai miei genitori per cercare di tornare a essere un uomo qualunque.

Per la stragrande maggioranza d’appassionati di musica ovunque al mondo, impossibilitati a seguire quella breve tournée in persona, la gloria di Mad Dogs & Englishmen risiede, però, nel film documentario realizzato da Pierre Adidge con la fotografia di Dave Meyers, altro gran regista di rock movies, passato alla storia già sin dal suo debutto nelle sale, nel 1972.

Sono, infatti, le immagini a confronto diretto, la naturalezza del cogliere l’attimo, tipico di chi proviene dal reportage di news dell’ultima ora, la camera sempre in movimento, a rendere il film ancor oggi imperdibile. Adidge non era un nome nuovo nel ”giro”, aveva già naturalezza con il mondo dell’industria musicale; nel suo curriculum vitae brillano infatti uno speciale tv su Peggy Lee, un documentario on the road a seguito di Tallbot Mason Williams e uno di più lunga durata sui Creedence Clearwater Revival ( ristampare, grazie! ndr). La mano sicura del regista che sa cosa fa si sente in ogni momento.

Certo è che l’ambiente esuberante e fricchettone di Mad Dogs & Englishmen fece la gioia del film maker che non avrebbe mai più duplicato né l’esperimento né il successo del docu-film su Cocker. Difficile ripetere un capolavoro nato sulla casualità dell’evento!

Il pubblico non aspettava altro, d’altronde: il fare erratico dei musicisti ma anche la loro bravura – Russell non sbaglia un ingresso e le dinamiche sono impressionanti per un baraccone del genere – l’atmosfera promiscua fra uomini e donne e quella felice vibrazione d’eccessi concessi e permessi, favorì una rilassatezza di costumi nei nuovi teen agers, che abbracciarono lo stile di vita dei cani pazzi e degli inglesi a cuor leggero.
“Mad dogs & Englishmen” fu un modello unico di gioia e belle canzoni che resistano, quasi tutte, ancora oggi, all’usura del tempo.

Il modello, come spesso accade, rimase ineguagliato, accendendo gli animi di musicisti infervorati da quel Rhythm & blues dal sapore country gospel. I teen agers, pur non capendo, si adeguarono, restando a bocca aperta, sognando di incontrare di persona donne come le coriste viste al cinema in “Mad Dogs & Englishmen”. Quelle poche ragazze che tentarono di ripetere le gesta delle loro eroine furono ostracizzate con termini non esattamente signorili.

Nessun Joe Cocker all’orizzonte da lì agli anni venire in Italia: i migliori imitatori furono Andrea Mingardi, Santino Rocchetti e Adriano Pappalardo, tre nomi che rivoluzionarono il repertorio della propria orchestra con le canzoni del film. Ivano Fossati per un po’ avrebbe aperto i concerti dei suoi Delirium con “Delta Lady “ poi, subito nel 1972, non si sarebbe vergognato di andare a San Remo a cantare “Jesahel” con un coro di 15 persone che doveva, nelle intenzioni, ricordare le epiche gesta del film con Joe Cocker e amici. D’altronde, e anche qui, un proverbio ci viene in aiuto, “ ad ognuno il suo”.

Ernesto de Pascale

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