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. | Earwig releases review
Chris James e Patrick Rynn, con la loro band The Blue Four, accompagnano spesso bluesmen di levatura nelle loro tournées europee. E’ una formula che non piace a tutti, ma che ha, specie in questo periodo, profonde ragioni economiche. Un vantaggio collaterale è che musicisti come appunto James e Rynn possano proporsi ad un pubblico vario, se non numeroso, senza ancora aver un’aurea di popolarità. Stop And Think About It, loro terzo album solista, ha una prima caratteristica importante: nonostante la presenza globale di 12 musicisti, il disco mantiene una sua unicità, cosa già difficile. Nella tradizione del Chicago post-war Blues, la musica è tesa, nervosa senza sbavature, con un lavoro di chitarra saggio e pungente allo stesso tempo, un canto accativante e un lavoro ritmico da vulcano mai spento, mai domo.A parte Maxwell, rifulge al piano anche Julien Brunetaud, che mantengono rollicking l’atmosfera. Usata con parsimonia ma puntuale la sezione fiati con l’ottimo Johnny Viau e Allen Ortiz ai tenori. You’re gone, I’d like to write a letter, e l’immortale Mona di Bo Diddley si stagliano in un mix comunque elevato di originali e pezzi più conosciuti. James e Rynn sono due tipi pericolosi che rischiano di restare in giro a lungo.
Dopo molti ascolti, è difficile capire il motivo per il quale questo “Red Top” non convinca fino in fondo. Forse la voce, utilizzata con grande tecnica ma un filino poco potente, è penalizzata da un mixaggio piatto, dove il canto come la voce risaltano meno del necessario, i fiati non schizzano fuori come tappi di champagne. Mandeville è molto brava negli swings – vedi “Red Top” dove può giocare sull’agilità, ma nei Soul Blues come “Hold me” risulta poco convincente. Ben intenso, non manca la voglia o il cuore ma la necessaria potenza e un tono rugoso. Questione di polmoni, più che altro. Un altro difetto potrebbe esser una certa uniformità nella scelta dei pezzi. Insomma un disco bellino sans plus. Anzi il plus c’è: s’impersonifica in Eddy Shaw che accende la luce con due assoli.
Scott Ellison è un’artista di fama nazionale, di quelli che si guadagnano il pane facendo 300 date all’anno, sperando di vincere un terno al lotto con una canzone giusta che possa avere larga risonanza. Ellison è ben avviato su questa strada, avendo lavorato per la televisione e per il cinema. Evidentemente non può e nemmeno vuole abbandonare la strada, la vita del musicista (quasi) sempre on the road, divenuta oggi, coi prezzi attuali della benzina, una sfida nella sfida. Questa passione giustifica “Ice Storm” che contiene pezzi registrati nell’arco di undici anni. Bravo alla chitarra, Ellison mostra una personalità musicale piuttosto comune, con molto rock’n’blues, riff corposi, entrate di fiati e hammond roboante. Visto anche che il canto non è il suo pezzo forte, saremmo tentati di consigliarli di continuare sulla strada dei jingles e della scrittura.
Questo CD ha due grossi difetti, in primis il missaggio dà adito a critiche: il piano in grande evidenza, la voce non adeguatamente esaltata, la chitarra ritmica come il piano, mentre gl’assoli sembrano suonati in uno scantinato … in generale, la registrazione non è di grande qualità. Secondo difetto: il disco è troppo corto, un non-sense totale in un periodo di crisi economica. Se un artista non è capace di fornire 50-60 minuti di buona musica, perchè chiedere all’appassionato 15 euro? Ammesso e non concesso che ci sia ancora qualcuno che compra i CD ... Se la giustificazione é che sia meglio un prodotto di qualità, magari corto, invece che riempire i CD con musica di scarto, che senso ha fare 10/12 dischi in 15 anni? Ovviamente questo è un ambito nel quale si potrebbe parlare a lungo, ma tornando al figlio della luna, “Moonchild”, ci si può legittimamente chiedere quanto i dettagli di cui sopra possano avergli nuociuto. In realtà, Moonchild è un ottimo cantante chitarrista, forse un pò arruffone, ma con dei buoni numeri, i suoi pezzi non sono originalissimi, ma acchiappano l’attenzione dell’ascoltatore con facilità. C’è una certa piattezza, ma un missaggio e una produzione differenti potrebbero cancellare questi problemi. Speriamo di vederlo presto dal vivo lasciandoci per il momento cullare da queste atmosfere vagamente Southern-Soul come “What could I be” o ilblues più classico come “Good buddy blues”.
Luca LUPOLI |
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