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Davide Mantovani

Dimitri Berti ha intervistato per Il Popolo Del Blues Davide Mantovani musicista italiano, ma ormai londinese d’adozione. Bassista attivo nella scena jazzistica più contaminata, ha suonato in tutti più importanti locali e sale da concerto della capitale britannica, e partecipato a numerosi festival internazionali tra i quali il WOMAD. È inoltre autore di colonne sonore per film, musica per teatro e danza.
Bassista, compositore. Suoni jazz ma anche musica non propriamente occidentale. Hai composto musica per teatro, per danza e colonne sonore per cortometraggi. Come si racconterebbe Davide Mantovani?
Ho studiato pianoforte da bambino. La mia famiglia mi ha sempre incoraggiato a sviluppare le mie doti musicali, mio padre ascoltava continuamente dischi, jazz, classica, folk… La musica mi affascinava e mi trovava attento. Questo contatto precoce con l’arte dei suoni mi ha permesso di “capirla”, prima ancora di studiarla, al pianoforte e in seguito con la chitarra e il basso. Tutte queste influenze hanno segnato il mio percorso musicale, impedendomi di concentrarmi su uno stile in particolare, spingendomi ad esplorare, assorbire, trasmutare. Oggi rappresentano un dizionario in continua espansione per le mie composizioni, e il panorama musicale londinese offre una grande opportunità per intersecare generi diversi in modo organico e coerente.

Nel 2004 è uscito Drawing Horizons, un cd di musiche che hai scritto per lo spettacolo teatrale Hole in The Heart diretto da George Eugeniou. Potresti introdurci il tuo lavoro?
Avevo già lavorato con George in passato. È un regista teatrale impeccabile, completamente immerso nella sua arte, fortemente influenzato dalla tragedia greca che è il pilastro portante della tradizione della sua terra. Questo suo nuovo progetto – permeato di riferimenti a vicende realmente vissute - racconta la storia di tre donne, figlia madre e nonna di origine greca o cipriota, che si ritrovano ad essere ragazze-madri. Sullo sfondo, il carattere fortemente urbano di un quartiere popolare di East London e la lotta quotidiana contro un gruppo di assistenti sociali incapaci di riconoscere e valorizzare il legame emotivo tra madre e figlia. Realismo sociale quindi, ma sempre permeato dal carattere evocativo del teatro di Sofocle, con personaggi anacronistici che appaiono improvvisamente nell’intreccio e interrompono il fluire cronologico del racconto. George mi diede carta bianca per la colonna sonora, il che mi spaventò, perché è molto difficile cominciare un progetto compositivo senza una minima direzione! Quindi passai molto tempo a viaggiare avanti e indietro tra la sala prove del teatro, a raccogliere idee, e il mio studio, a svilupparle. Nel giro di un mese eravamo entrambi soddisfatti dello sviluppo musicale.
Nelle note di copertina hai scritto che i brani possono essere ascoltati anche indipendentemente dalla rappresentazione.
Durante il processo compositivo mi sono reso conto che i brani possedevano una propria identità, non erano limitati al commento musicale dell’opera teatrale, volevano “dichiarare la propria indipendenza”. Per cui, avendo tempo a disposizione, ho composto diverse versioni, alcune prettamente legate alla durata delle varie scene, altre sviluppate in un contesto più discografico. È stata una lotta contro il tempo, ma sono riuscito ad avere il CD pronto per la prima dello spettacolo.

Qual è il motivo per cui hai scelto di avvicinarti a queste altre forme artistiche?
Ne sono stato spontaneamente attratto, come molte volte succede nel mio lavoro. Si presenta un’opportunità, e se il potenziale creativo è elevato allora accetto la sfida.
Qual è stato il tuo approccio? Lo consideri più un incontro casuale od una necessità artistica?
Non credo nella casualità, penso che ci sia sempre una ragione, più o meno occulta, per cui le circostanze si creano e la gente s’incontra. La musica è un veicolo ottimale perché si verifichi questo genere di “coincidenze”. Ogni nuova commissione è un’occasione per rinforzare il proprio stile e sperimentare nuove forme, estendere i propri confini.
Parliamo invece del tuo ultimo lavoro Polaris. Com’è nato?
In un bar vicino casa mia, esattamente un anno fa. Una stretta collaborazione con Roberto Manes, violinista milanese di rarissimo talento, nonché mio grande amico dai primi mesi londinesi. Frutto del desiderio di creare qualcosa di artisticamente appagante -era un periodo piuttosto privo di stimoli creativi-, misto alla curiosità di utilizzare un effetto elettronico chiamato Echoplex, un ripetitore di suoni in tempo reale, con cui da tempo volevo sperimentare. Dopo una lunga conversazione, abbiamo deciso di mettere insieme questo duo, e la settimana dopo avevo l’Echoplex in casa.
Roberto è presente in entrambi i dischi. Qual è stato il suo apporto ad i lavori?
In Drawing Horizons ha dato il suo apporto musicale su brani miei (come del resto ho fatto io per lui nei suoi cd Fihavanana e Phoenician Dream). Con Polaris è molto diverso, più interdipendente. Sul palco colleghiamo all’Echoplex tutti i nostri strumenti (basso, violino, percussioni, Steinerphone – una specie di synth-trumpet analogica-, flauti, voci), e ci campioniamo all’istante, creando strati musicali sempre più sofisticati e dettagliati. Ci capiamo al volo, sappiamo sempre da che parte vogliamo proseguire, ma mai dove arriveremo! Molto imprevedibile ma altamente stimolante. La gente si diverte e si incuriosisce a vederci suonare; per noi, se mi permetti, e’ una specie di orgasmo musicale.
Ascoltando i tuoi lavori mi è sembrato che la ricerca dell’atmosfera, oserei dire dell’immagine, fosse una costante. Mi sbaglio? Cos’è che cerchi quando componi?
Hai colto nel segno. Quando compongo -a prescindere dal destinatario della composizione- mi rifaccio sempre ad un’immagine, non necessariamente visiva, spesso si tratta di un’immagine interiore, emotiva, uno stato d’animo. Del resto comporre colonne sonore comporta questo genere di approccio. Ma voglio aggiungere una cosa: mi affascina il fatto che un brano musicale, preso per sé, dissociato da ogni riferimento visivo, riesce comunque a creare immagini, soggettive, diverse per ogni ascoltatore, eppure in qualche modo legate da un filo comune, una specie di codice genetico evocativo, riposto nell’inconscio collettivo. -Sto elucubrando?-
Tra le molte influenze presenti nella tua musica, quella della musica araba è sicuramente tra le più lampanti. Come ti sei avvicinato a questo tipo di musica ed alla sua cultura?
Più che araba direi nord-africana - Algeria Marocco ed Egitto -. Il 2003 e 2004 è stato un periodo in cui ho incontrato molti musicisti di quella parte del mondo, che mi hanno coinvolto in alcuni loro progetti, per cui l’influenza che ne ho ricevuto e’ stata un passaggio naturale. Ma non e’ un capolinea. Ho passato anni a suonare musica cubana e brasiliana, e ora il mio interesse si sta spostando più verso l’africa occidentale, in Senegal, Mali, Ghana… un viaggio interminabile!
Da ormai quattordici anni vivi e lavori e Londra. Cosa ti ha portato a stabilirti in questa città? In che modo questo ha influenzato il tuo lavoro?
Eh caro Dimitri, purtroppo questa risposta comporta una critica pesante nei confronti della scena culturale italiana. Per quanto ami il mio paese e consideri il livello musicale italiano tra i più alti in Europa, ho deciso di allontanarmi dall’Italia quando mi sono reso conto che le alternative a mia disposizione oscillavano tra il “lavoro ben pagato” – suonando motivetti di quindici secondi per uno di quegli innumerevoli giochi a quiz, scrivendo stacchetti pubblicitari o accompagnando qualche superstite cantautore sanremense – oppure fare la fame suonando e insegnando jazz o blues, e assistere al tragico fenomeno della scomparsa di un numero sempre più elevato di locali di musica live. Del resto, Londra - così come Parigi, Berlino etc.) è piena di musicisti italiani di alto livello che riescono a coltivare i propri progetti e trovare un pubblico che li ascolti. Sono venuto a Londra “per provare per alcuni mesi”…ed eccomi ancora qui. Conosco molti colleghi con una storia simile alla mia. Aspettiamo – purtroppo ancora invano – che la scena musicale italiana venga riconsiderata, includendo quello sterminato network di artisti validissimi che sono stati, negli anni, educatamente, in silenzio, accompagnati fuori, messi in disparte e dimenticati.
Certo, il carattere fortemente cosmopolita e multiculturale che ho trovato a Londra mi ha dato una spinta creativa che credo non avrei mai sperimentato in Italia. Per un compositore è un asso nella manica, una carta vincente da giocare spesso. È quasi impossibile resistere alla contaminazione artistica, molti progetti sono basati proprio su questa necessità di fondere, mescolare, creare ponti tra culture.
Cosa pensi dell’attuale scena musicale Londinese (in particolare quella jazzistica)?
Come già ho detto, gli stimoli sono continui ed interminabili; ovviamente anche il jazz ne è influenzato, anche se la scena del be-bop o quella del jazz tradizionale rimangono comunque ben definite, delineate. Ci sono artisti eccezionali conosciuti a livello internazionale, coinvolti in progetti propri o a seguito di altri artisti. Le opportunità di lavoro, anche se ahimé in calo, sono comunque sempre alte e stimolanti. Per quanto riguarda la promotion, non è sempre facile riuscire a stare a galla in questo oceano sconfinato di musicisti, e trovare un manager o un agente competente. Ma una cosa è certa: i mezzi per conseguire il successo esistono ed e’ solo questione di imparare a farli funzionare, perché comunque se un progetto ha qualcosa da offrire trova sempre un pubblico pronto a farne esperienza.

Ultima domanda, banale, ma necessaria. Progetti per il futuro?
Tanti! Continuare a far crescere Polaris, questa direi è la cosa principale. Vogliamo registrare un nuovo disco entro l’inizio del prossimo anno, e c’è un’idea di organizzare una jam session lunga un intero week-end, non-stop, e trasmetterla su una radio online. Inoltre sto lavorando su un nuovo progetto, Equilateral, basato sull’incontro tra la musica nord-africana e quella dell’Africa occidentale, che presentano forti tratti comuni. Poi c’è la musica per film e danza che occuperà parte del mio tempo futuro. Inoltre vorrei concedermi - tempo e soldi permettendo - un viaggio di qualche mese in posti che non ho mai visto, per raccogliere nuove idee. Ti terrò al corrente.
Per avere maggiori informazioni sul musicista:
www.davidemantovani.net
e per contattarlo: davide@davidemantovani.net
DAVIDE MANTOVANI & ROBERTO MANES - POLARIS
(www.londoncomposers.co.uk, 2005)
Polaris è l’ultimo disco di Davide Mantovani, realizzato in duo assieme al violinista Roberto Manes. Concettualmente è un lavoro che potrebbe ricordare gli esperimenti di Brian Eno assieme a Robert Fripp, dato che tutto si sviluppa grazie ad un looper; dall’ambient però prende volutamente le distanze attraverso un’attenzione al ritmo molto più accentuata, ed un repertorio melodico che attinge liberamente tanto dal jazz quanto dalla musica “world”. Affascinanti strutture su cui si sedimentano basso e violino, ma anche voci percussioni ed i suoni sintetici dell’EVI. Musica di difficile classificazione, tanto elettronica quanto reale ed estemporanea. Un disco più d’atmosfere che “d’ambiente”; sarebbe riduttivo appiattirlo sulla mera sperimentazione, poiché la sua ricerca implicita è quella di coinvolgere attraverso intesità e colore.
DAVIDE MANTOVANI- DRAWING HORIZONS
(www.davidemantovani.net, 2004)
Come spiega lo stesso autore nel booklet del cd, le musiche che aveva scritto per lo spettacolo teatrale Hole In The Heart di George Eugeniou ad un certo punto hanno preso vita propria, tanto da poter essere ascoltate lontano dalla rappresentazione. Ed ascoltando il lavoro non si può che dargli ragione, tanto sono interessanti e suggestive. Un lavoro che rimane comunque fortemente legato ad immagini, certo non più quelle accompagnate, ma quelle evocate nell’immaginazione di chi ascolta attraverso un sapiente uso dei colori e dei silenzi. Numerose le influenze, Mantovani ha l’indole del viaggiatore, attinge da ogni tradizione con il massimo rispetto, cercando però una via personale. La presenza di ottimi musicisti quali Gerry Hunt (sassofono, flauto, clarinetto), Yazid Fentazi (oud), Roberto Manes (violino), Mathias Borgmann (chitarra), oltre allo stesso compositore (qua al contrabbasso, flauto nepalese, percussioni e programmazioni) non può che accrescere ulteriormente il valore già elevato dell’opera. Si ascolta, e se ne rimane affascinati.
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