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London Calling, 25esimo anniversario

Un produttore che tenta di dare fuoco a uno studio di registrazione. Una intera seduta di registrazione andata cancellata. Un nastro smarrito della metropolitana di Launder. Un presidente di casa discografico tacciato di incompetenza. Un pianoforte a coda riempito fino all’orlo di vino merlot. La disillusione concretizzata nella distruzione di un palcoscenico
Possono queste variabili contribuire alla costruzione di un capolavoro. Pare di sì, se il disco in questione è “London Calling “, di cui ricorrono i venticinque anni e se il loro autori, i componenti del gruppo inglese dei Clash, ne confermano la assoluta necessità .

“Avevamo le spalle al muro – dice Mick Jones, chitarrista, compositore e oggi produttore dei Libertines, una sbiadita copia del suo complesso – e dopo due dischi che ci avevano imposto sul mercato ma che ci avevano indotto scelte importanti, eravamo arrivati all’ultima fermata”. Joe Strummer, voce e leader carismatico del gruppo fu il motore irrazionale di una impresa discografica paragonabile oggi ai capolavori di nome ben più altisonanti. Un disco concettualmente unito dal bisogno di descrivere un sottobosco di umanità che nessuno nel punk aveva descritto così bene, dalla necessità di raccontare il confronto con l’America scoperta pochi mesi prima. “Erano i primi mesi del 1979 quando ci imbracammo nel nostro primo tour statunitense – racconta il bassista Paul Simonon, anima reggae del gruppo – e al ritorno le canzoni erano tutte lì, piccoli o grandi sketch di un mondo che fino a quel giorno avevamo rinnegato“.

Con “London Calling“ i Clash si lasciarono dietro le spalle qualsiasi spartiacque geografico perché nel scegliere la semplicità scelsero l’essenza del rock & roll, un’ essenza all’epoca negletta dal punk e affondata nella pomposità di certe espressioni musicali dei settanta. Spaziando dal rockabilly, al suono Motown, al rhythm & blues, al jazz, dalle ispirazioni spectoriane al reggae, i Clash fermarono su vinile 19 momenti della vita in cui si rispecchiarono i giovani di tutto il mondo.
L’importanza del disco, l’urgenza con cui si poneva sul mercato – un doppio disco al prezzo di uno grazie a uno stratagemma di Strummer e Jones che costò loro molte royalties negli anni a venire – la dirompente fusione della foto di copertina di Penny Smith e del lettering (palesemente ispirato al primo album di Elvis Presley), il bel video di Don Letts, girato su un barcone sul Tamigi, spinsero l’album in alto nelle classifiche.

Con la semplicità della gente di strada i quattro Clash descrissero l’avvento del primo ministro Margareth Thatcher, le catastrofi termonucleari di Three Mile Island, la decadenza di Wall Street, la lunga onda di una politica destabilizzante della destra estremista che aleggiava nel mondo Il rock & roll non era mai stato così vicino al punk e viceversa, le canzoni – a partire dal brano che dava il titolo all’album – avevano l’autorevolezza di un inno.

Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e il batterista Topper Headon non sarebbero mai più riusciti a fare di meglio in studio di registrazione (anche se ci andarono molto vicini solo un anno dopo con il triplo “Sandinista“!) e l’onda lunga che portò i Clash a Bologna un anno dopo in concerto in piazza Maggiore aveva davvero ancora il suono di “London Calling“.

Oggi che la ricerca spasmodica di nuove icone e idoli si fa essenziale per motivare gli ascoltatori giovani per legare passato e presente l’onestà culturale dei Clash viene ancor di più in primo piano. Si dovranno affannare ancora a lungo i critici internazionali per trovare un gruppo i cui contenuti fossero così pertinenti con la musica. Una mistura magica innata dalla durata indefinita, facile a svanire nel niente. Esaltata dalla coscienza dei quattro musicisti. Confermata ancora una volta oggi da questa nuova edizione di “London Calling“ che niente ha perso della sua originale forza.

Ernesto de Pascale


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