. |
Indipendent Days Festival, Bologna Parco Nord, 4-5 settembre 2004.
Parte decisamente male la prima giornata dell’Independent Days festival, con i forfait (semi)improvvisi di dEUS, Shins e Keane. Dispiacciono in particolare le assenze dei primi due nomi, dEUS per via della naturale curiosità riguardo al loro ritorno, dopo qualche anno difficile che ne aveva messo a rischio l’esistenza, e Shins perché sono a mani basse tra i migliori nomi dell’underground americano di oggi. Pazienza. Il pubblico è numeroso ma non troppo, il caldo è infernale, la piadina e lo zucchero filato serviti a ripetizione, sono questi gli ingredienti di un festival che ha l’ambizione per niente nascosta di diventare il top in Italia, almeno presso un certo tipo di pubblico. In questo senso la buona notizia è che i cambi palco sono abbastanza veloci, la cattivissima che alcuni concerti soffrono per causa di scelte discutibili al mixer, anche se spesso i problemi di questo tipo sono da imputare ai tecnici delle band stesse e non all’organizzazione.
L’inizio festival è affidato ad una serie di formazioni italiane. Non dispiacciono Ray Daytona and the Googoobombos, certo non originali ma capaci di suonare rock’n’roll come si deve, mentre deludono un po’ gli indierocker Julie’s Haircut, forse a disagio davanti ad un pubblico tanto numeroso, forse semplicemente fuori contesto. Davvero noiosi, invece, i Tre Allegri Ragazzi Morti, ben recepiti dal pubblico ma oltremodo statici su un punk-pop datato e costruito sui soliti tre accordi. Intanto il decennio di vita non è così lontano, e Davide Toffolo deve ancora convincerci che questo progetto non sia una semplice alternativa alla sua brillante attività di disegnatore. Con l’arrivo dei nomi grossi, cominciano a farsi palpapili i problemi di acustica. I primi a soffrirne sono i Mondo Generator, terrificante macchina hard rock concepita dall’ex Kyuss e Queens of the Stone Age Nick Oliveri. I pezzi ci sono e l’attitudine anche, ma vengono sciupati da un suono impastato che nuoce all’impatto complessivo del concerto.
Mark Lanegan
Un’esibizione a cui neanche l’arrivo sul palco di Mark Lanegan, salito sul palco in anticipo per cantare Auto-Pilot dei Queens of the Stone Age assieme all’amico Oliveri, riesce a dare una sterzata. Ma se i Mondo Generator soffrono, è proprio Lanegan a rimetterci l’intero concerto. Forte di un nuovo e bellissimo album (Bubblegum), Mark si presenta sul palco in buona salute e con una band nuova, ma la sua voce rimane dentro il microfono e viene sovrastata dagli strumenti, incidendo negativamente sulla riuscita di un’esibizione invero attesissima. Quasi dimenticati i vecchi dischi (scelta condivisibile, vista la bontà del materiale nuovo), con Wedding Dress e le più muscolari Hit the City e Methamemphetamine Blues a farla da padrone. La classe c’è e si sente, ma alla fine aleggia il desiderio di riascoltare il disco e godersi la voce finalmente in primo piano, non quel che si dice un retrogusto positivo…
Quindici minuti ed è la volta dei Libertines in versione zoppa (l’assenza del cantante e chitarrista Pete Doherty, alle prese con una chiaccheratissima disintossicazione, pesa molto). Il gruppo è attualmente al numero 1 nella natìa Inghilterra, ma ciò che lascia è davvero troppo poco per meritarsi un commento senza riserve. Non che manchino i pezzi buoni (What a Waster, The Ha Ha Wall, Can’t Stand Me Now sono dotate di un’innegabile energia), ma si perdono a fronte di un’attitudine citazionista che preme senza timore l’accelleratore sul già sentito. Dopo quarant’anni di tradizione, la gabbia del rock fieramente Made in UK si sta rivelando un clichè troppo pesante ed insulare, e scrivere buone canzoni basta forse se ti chiami Paul Weller, Pete Townshend, forse anche Noel Gallagher (ne scrivesse ancora…). Insomma, per attingere a piene mani dalla storia bisogna esserci dentro, e per l’ingresso dei Libertines è presto, molto presto.
Si rimane in zona (Scozia) con i Franz Ferdinand. Se è indubbia la loro capacità di tenere in mano una folla e molti dei presenti sono venuti al festival solo per loro è anche vero che nel 2004 questo non basta. Le citazioni sono lievemente diverse, basti pensare a dei Talking Heads con molta meno fantasia e il gioco è fatto. Si susseguono gli hit e un sacco di gente si precipita per ballare Jacqueline e Take Me Out, forse il momento più affollato di tutta la due giorni. Una nuvola di commenti entusiatici (che condividiamo solo a proposito del suono, davvero ottimo rispetto ai due concerti precedenti) accompagna il cambio palco, e tocca dunque ai Sonic Youth.
Sonic Youth
Non c’è bisogno di dire che anche in questo caso una cospicua fetta di pubblico speculare a quella dei Franz Ferdinand li stava aspettando. Regalano un concerto davvero troppo breve, ma positivamente incentrato sull’ultimo album Sonic Nurse (Mariah Carey & Arthur Doyle Hand Cream, Paper Cup Exit, Pattern Recognition), attitudine che conferma la volontà di rimescolare le carte ancora una volta. Ai nostalgici vengono regalate soltanto potenti interpretazioni di 100%, Teenage Riot e Drunken Butterfly (Eric’s Trip, suonata appena quattro giorni prima, manca mestamente all’appello), mentre si susseguono i brani nuovi cantati da una ringiovanita Kim Gordon, tornata dopo anni ad essere il centro focale della formazione. E dire che la paura di vederli bolliti aleggiava da anni, esattamente dopo il brutto NYC Ghosts and Flowers, ma la collaborazione attiva di Jim O’Rourke, non solo produttore ma quinto membro del gruppo, ha prodotto due album di spessore e i risultati sono udibili da tutti. Chiudono impietosamente dopo soltanto un’ora e dieci minuti compreso il bis, e il pubblico è costretto a dirigersi verso l’uscita o la tenda dell’Estragon, per vedere i mediocri Radio 4. La mancanza di idee è palpabile, e i newyorchesi sembrano niente più che un bignami del punk-funk e delle recenti contaminazioni fra rock e dance: striminzito senza immaginazione. Rimandati, ma anche in questo caso il pubblico ha voglia di ballare ed è coinvolto da un set capace di divertire.
La seconda giornata parte ancora peggio della prima: Derozer (e dire che loro affondano le proprie radici nella crema dell’hardcore nostrano…), Persiana Jones e Thee F.T.P. sembrano essere chiamati per ricordare l’estrema pochezza di idee che affolla il punk italico, fatto di decine di gruppi che si limitano ad imitare pedissequamente certi modelli americani. Quando poi salgono sul palco i californiani New Found Glory appare chiaro che il problema risiede direttamente nei gruppi imitati. Una pena, ma per fortuna dopo tocca ai Dirtbombs. Non possiamo certo definire il gruppo di Mick Collins una sorpresa, vista l’esperienza e la lunga militanza di quest’ultimo anche a capo dei Gories, ovvero il revival garage anni luce prima che andasse di moda. I cinque di Detroit offrono di tutto: violenti rockabilly, garage-soul, glam, tocchi di psichedelia acida, puro rock’n’roll. Se il suono è stracollaudato, la voce nera di Collins aggiunge all’insieme un qualcosa che pochi altri hanno (vengono in mente i Bellrays, molto più giovani…) e tutta la band ha un impatto che spazza via ciò che si è visto in precedenza. Sarà che dopo una simile apparizione è sempre difficile riprendersi, ma ciò che viene dopo rischia di spegnere pian piano la giornata. Davvero innocua Melissa Auf Der Maur, ex Hole e Smashing Pumpkins, animale da palcoscenico di evidente bellezza ma non certo dotata come cantante e compositrice di un pugno di canzoni che mostra un pesante debito verso il rock alternativo degli anni ’90. Per conto loro, Lars Frederiksen and the Bastard portano un’energia che il pubblico gradisce oltremodo, ma anche un suono punk mai più che generico, continuando ad alimentare seri dubbi sullo stato di salute dell’intero genere.
MC5
Dopo di loro però arrivano gli MC5, quelli che il punk l’hanno precorso e di molto, e per qualcuno è il momento della vita. Stupisce vedere la presenza di orde di ragazzini che non erano neanche nati quando i cinque della Motor City erano sciolti già da un pezzo, ma il tempo per rendersene conto è breve, perché dal palco attacca Ramblin’ Rose e si capisce che gli anni sono passati senza togliere più di tanto al suono di uno dei gruppi rock più importanti di sempre. Sono rimasti solo in tre Michael Davis, Wayne Kramer e Dennis "Machine Gun" Thompson, accompagnati per l’occasione da Evan Dando e Nick Royale degli Hellacopters ma il potere di Rocket Reducer n.62, Kick Out the Jams e Teenage Lust, rimasto intatto, dimostra che questa non è solo una riunione per festeggiare i vecchi tempi e tirare su qualche soldo.
Velvet Revolver
Ci si avvicina alla fine, ed è senza dubbio curioso l’accostamento Velvet Revolver/Darkness, posti in chiusura di tutta la kermesse. Se i primi noiosi, prevedibili, inutili sembrano quasi creati in laboratorio, col fine di reimpostare quel machismo hard rock che affonda le radici negli anni ’70 (ma anche gli ’80 e ’90 sono stati habitat fertili: leggi Guns’n’Roses e Stone Temple Pilots), la ragion d’essere dei secondi divertenti, imprevedibili ma inutili allo stesso modo è proprio l’esplicita parodia di quell’atteggiamento. C’è anche un’altra differenza, cruciale: tanto i cinque americani sembrano artefatti e costruiti, tantopiù gli inglesi appaiono innamorati di ciò che parodiano, assoli e mossette sul palco compresi, un po’ come succedeva con This is Spinal Tap vent’anni fa. Inutile dire chi siano i più simpatici, ma mentre ci allontaniamo dal Parco Nord non possiamo non chiederci quanto possano e debbano durare realtà del genere.
Bernardo Cioci
tutte le recensioni
|
. |