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The Libertines The Libertines
(Rough Trade/Self)
Strana terra il Regno Unito, paese in cui la musica, soprattutto quella pop, è qualcosa di radicato nella coscienza popolare e dunque veramente importante, prezioso, un argomento di cui si parla spesso e in cui gli inglesi cercano di primeggiare quasi ossessivamente. Comportamento, questo, le cui spiegazioni andrebbero forse ricercate (anche e soprattutto) nel disperato bisogno di rivalersi dalla sudditanza psicologico-culturale subita per tanti decenni ad opera dei cugini yankee. Detto poi che, agli occhi degli inglesi, non c’è niente di meglio che vedere un gruppo britannico scalare le classifiche USA, non resta altro che introdurre l’attuale sensazione d’Albione: i Libertines. Che si distinguono subito da tutti gli altri gruppi ai blocchi di partenza, e questo è senza dubbio un bene, per il semplice fatto di avere una storia interessante alle spalle. E’ una storia di amicizia tipicamente inglese, fatta di amore/odio, di grandi manifestazioni d’affetto e altrettanto grandi scazzottate, di disastrose bevute al pub, e ovviamente di rock’n’roll. Protagonisti sono i due leader del gruppo, Carl Barat e Paul Doherty, entrambi cantanti, entrambi chitarristi, entrambi autori, due figure speculari che proprio non riescono a mantenere gli eccessi su un piano privato. Per capirci, Doherty è attualmente fuori dal gruppo, alle prese con una tossicodipendenza seguita passo passo dai settimanali musicali inglesi, con conseguenti titoloni che ogni giorno annunciavano una sorte diversa per il gruppo, dallo scioglimento all’arresto di questo e quel membro, alle canoniche risse in giro per Londra, etc. Lo stesso manager Alan McGee, uno che di teste calde (Liam Gallagher) se ne intende, ha recentemente dichiarato che lavorare con la band è stata l’impresa più difficile della sua vita. Dunque, serve forse precisare che di questo secondo disco, uscito da pochissime settimane, parlano tutti? Il primo, Up The Bracket, arrivò nel 2002 e fu salutato come uno dei Grandi Album di Rock Inglese (sì, di quelli che potrebbero anche mettere a ferro e fuoco gli USA!), mentre adesso è la band stessa a gettare benzina sul fuoco, intitolandolo semplicemente The Libertines perché, come dicono loro stessi, “vorrebbe essere la cronistoria in musica di quest’ultimo anno difficile”: droga, risse, etc…abbiamo già detto, ma è ormai palese che i ragazzotti abbiano capito come funzionano le regole del gioco. Del resto basta aprire un giornale inglese per leggere le espressioni altisonanti del caso, la più totemistica delle quali è “la band più importante della propria generazione”. Sono parole usate una volta ogni due-tre anni e fanno parte di un meccanismo perfettamente rodato. Si prende un gruppo, lo si denomina “il futuro del rock inglese” e si inizia a recensirne le mosse in chiave mai meno che entusiastica. Tutto questo fino all’arrivo di un altro gruppo che ne prenderà il posto, e così via, in un circolo vizioso che ormai, visto con occhio da forestiero, fa quasi tenerezza. In fondo sarebbe anche un peccato, perché preso in sé The Libertines non è un disco malvagio. Per niente originale, vero, sia con quel verso ostinato ai Clash (a proposito, Mick Jones è ancora alla produzione) che alla lunga irrita sia nel desiderio di apparire contemporaneamente trasgressivo e conformista, quindi perfetto per stare nello stereo dei “lads” che affollano le periferie così come in quelli dei raffinati bohemien delle scuole d’arte. Ma i pezzi ci sono, va detto, e sono scritti seguendo le regole del caso. Don’t Be Shy è un lamento ubriaco sospinto da una chitarra affilata, Campaign of Hate uno ska rallentato che ironizza sulle tante voci messe in giro sul conto del gruppo, mentre What Katie Did sembra un quadretto preso in prestito dai primi album dei Kinks. E poi c’è Can’t Stand Me Now, che col suo ritornello killer sembra il primo affondo diretto che i Libertines destinano con successo alle classifiche. E’ buono, sì, e forse è questo il problema. E’ solo buono. Se si tolgono tutte le storie, le parole e i sovrastrati che ne hanno accompagnato la gestazione, questo rimane un buon disco di rock’n’roll, neanche troppo consigliabile a chi presumibilmente molti lettori di questo sito ha una vasta collezione di dischi. Figuriamoci poi se salverà la vita di qualcuno.
Bernardo Cioci
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