Michael Moore non dirige film horror eppure è un maestro della paura. Ci aveva mirabilmente mostrato quella delle armi e della gioventù depressa in Bowling For Columbine. Aveva se possibile amplificato il timore del terrorismo mostrando i legami tra l’establishment e la fabbrica dei kamikaze. In Sicko va oltre. Trova una paura ben più subdola. Tutto sommato al terrorismo ci si può ribellare e le sparatorie nelle scuole sono eventi più o meno casuali ai quali, con un po’ di fortuna, si può sfuggire. No, non sono questi i veri timori della middle class. È la morte che ci minaccia, la morte che va cacciata, allontanata. E nonostante aerei dirottati e pistole facili la gente, ancora oggi, continua ad andarsene soprattutto per malattia. Ecco il punto. La malattia è il contrario di salute. L’uomo ricerca la salute. Teme la malattia, ma soprattutto teme l’impossibilità di curare la malattia.
Il sistema americano in questo è particolarmente perverso. La sanità pubblica non esiste, così si fanno assicurazioni sanitarie o si cercano lavori che nel “pacchetto retribuzione” includano le due parole magiche “health insurance”. In ogni modo assicurazione non fa rima con cura. Innumerevoli cavilli legali possono essere addotti per rifiutare cure indispensabili o risarcimenti farmaceutici. Così medicine essenziali arrivano ad avere prezzi esorbitanti, mentre per cure altrettanto indispensabili bisogna lottare con burocrati del profitto sanitario. La posta in palio è alta, altissima, chi non riesce a farsi curare muore. Di qui la paura; nemmeno ingiustificata sarebbe da dire.
Moore con il solito stile, accattivante anche se meno ironico del solito, viaggia prima tra alcuni casi di quella che altrove sarebbe chiamata malasanità, ma che negli USA è prassi. Quindi si sposta in Canada, nel Regno Unito, in Francia. Nazioni occidentali, dove la sanità pubblica è una conquista acquisita da così tanto tempo da essere diventata scontata. In America non è così, finché le compagnie assicurative non sono diventate delle lobby granitiche, quindi inamovibili, la giustificazione che rigettava la sanità pubblica era il timore di una deriva socialista (?).
Nelle tappe europee del documentario veniamo a scoprire che la sanità italiana, quella bistrattata dei topi nei policlinici, è la seconda al mondo, dietro quella francese. Notizia passata in quarto o quinto piano nella solita estate del belpaese; tra delitti irrisolti, festone opulente e scioperi fiscali.
Tornando a Moore; in chiusura di film cerca il colpo ad effetto, la sfida aperta al potere costituito. Carica su una barca un manipolo di soccorritori dell’11 settembre dimenticati dalla sanità e li traghetta nientemeno che a Cuba. Nell’isola caraibica, ancora l’inferno per l’amministrazione federale, gli eroi finiti nell’oblio trovano assistenza e cure.
Forse la sanità cubana è davvero migliore di quella made in USA, ma, sinceramente, signor Moore, questo viaggio poteva risparmiarcelo. Troppi dubbi permangono sul servizio perfetto offerto dai ligi medici cubani, il sospetto che Fidel Castro o chi per lui si sia sfregato le mani all’opportunità di ridicolizzare l’America di fronte al mondo è come minimo lecito. A meno che non si voglia davvero credere che il regista sia riuscito a portare vari pazienti più un’intera troupe a spasso per L’Avana senza che il governo dittatoriale avesse dato l’assenso.
Insomma, il colpo di teatro è riuscito, ma bastava l’esempio della Francia, della Gran Bretagna. Di paesi perfettamente democratici, dove la sanità è pubblica non certo per la dittatura socialista ma per il welfare. Parola il cui significato negli States è spesso ignoto o travisato.
In conclusione, tuttavia, il film riesce nel suo intento di mettere a nudo le disfunzioni del sistema sanitario della superpotenza globale. Si potrebbe discutere molto sul perché uno spettatore europeo sia molto toccato ed interessato da quello che succede negli Stati Uniti. Di come si senta partecipe del dramma di chi è impossibilitato a curarsi, quando in patria, quasi sicuramente, non avrà mai questi problemi. Generosità? Bontà d’animo? Difficile pensarlo di fronte alle tragedie anche peggiori che accadono in parti meno illuminate del globo, di fronte alle quali passiamo oltre.
Probabilmente, lo vogliamo o no, ci piaccia o no, siamo tutti un po’ americani. Si possono amare gli USA così come si possono odiare, ma quello che succede lì ci interessa e ci fa pensare; perché la nostra storia recente è intrecciata alla loro, perché compriamo e consumiamo i loro prodotti, perché l’American Dream in fondo ci appartiene, e quando viene violato, ci sentiamo, anche dall’altra parte dell’Oceano, traditi.
Matteo Vannacci
|
Track List
|