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Burt Bacharach - Lucca Summer Festival , 17/07/2004



Mentre durante gli anni sessanta il popolo del rock cresceva e diventava consapevole del proprio posto nella società, mentre nei settanta sviluppava stili e forme sfaccettate e ideologie, negli ottanta si plastificava e nei novanta diventava proprietà delle corporazioni un signore di provenienza inglese conquistava Hollywood, sfiorando solo occasionalmente il mondo descritto ma attirando a se più volte – direttamente o indirettamente – questo o quell’artista.
Ciò avveniva per merito di uno stile compositivo sofisticato ma mai stucchevole, di una sensualità che il rock impiegò molto tempo a riacquistare dopo gli impeti delle varie ondate e manie, per merito di una attenzione verso i particolari che il postulato del rock – pochi accordi, linee melodiche dirette – non aveva ancora fatto proprio.
Il nome di quell’uomo è Burt Bacharach, un giovanile settantaseienne che, non pago del suo passato, nell’estate 2004 ha deciso di allungare la sua biennale capatina nel vecchio continente per una breve tournee nella nostra penisola.
Il maestro non veniva in Italia almeno da trent’anni e per dire di averlo visto dal vivo bisogna tornare indietro ancora a un po’ più, rovistare nella cartella dei ricordi e forse non trovarne ancora traccia.
Della sua musica sappiamo tutto – qualunque sia la generazione dell’ascoltatore - almeno da quando Aretha Franklin interpretò “Say a Little Prayer “ nell’ album “Aretha Now “, compressa fra una qualsiasi “ Think “, originale scritto con l’allora marito Ted White, e una “ See Saw “, autore Steve Cropper, chitarrista simbolo della Stax Records di Memphis.
Certo!, Aretha non era stata né la prima né l’unica: Burt e il suo paroliere di fiducia Hal David avevano già da alcuni anni affidato le loro smaglianti composizioni a un’altra cantante di colore, Dionne Warwick, ma il target non era, come per Aretha, quello del rock.
Ci aveva pensato Arthur Lee dei Love, uno sempre un passo avanti, a farsi precursore di molti dei suoi simili da quando aveva messo le mani su “Little Red Book “ per inserirla nel primo disco del suo gruppo e passare il testimone a Syd Barrett il quale a sua volta la stravolse tramutandola in “Astronomy Dominè ” epica cavalcata acida e contorta dei suoi inglesissimi Pink Floyd. Eppure i nominati, oggi passati alla storia, nel 1966/1967 rappresentavano l’underground non le masse che la voce di Aretha catturò, una differenza di non secondaria importanza per capire il lungo percorso compiuto dalle canzoni di Bacharach!
Per meglio comprendere la sua storia ricordiamo che allora Bacharach aveva già quasi dieci anni di successi dietro le spalle, e prima ancora gli anni come pianista di Marlene Dietrich, della quale fu cortese e garbato amante, un netto rifiuto di ingaggio da parte di una casa discografica italiana ( la Ricordi di Nanni Ricordi per l’esattezza, che ti pareva !…) e alcuni hit che avevano fatto capolino anche in Italia affidati a questa o a quella giovane interprete di successo, come “stai lontana da me “, “Tower of Strenght” cantata da Gene Pitney, che Adriano Celentano rese in italiano eccezionalmente credibile oscurando quella della originale dell’ ingessato Pitney.
Bacharach resta un maestro di quello stile che si chiama Tin Pan Alley, che si sviluppò tra i cinquanta e i sessanta in un fatiscente palazzo di Broadway, il Brill Building, al numero 1619 di New York City, e che esportò nel mercato della musica da cinema e nella sua capitale, Hollywood.
Oggi, per dovere di cronaca, Burt è la rappresentazione vivente del detto “it never rains in southern California “: abbronzato, sorridente, pronto alla battuta, un pò sciroccato, vestito da americano che ama l’Europa in vacanza.
Però è quando batte quattro con una invisibile bacchetta che tramuta la leggenda in realtà, con quel suo tocco pianistico “sparso”, sintetico, sinuoso tra i perfetti arrangiamenti di un gruppo composto da otto elementi, con quelle poche note qui e lì che paiono cadere per caso, in una combinazione non lontana dallo stile di un altro straordinario compositore di quella generazione, il brasiliano Jobim. E’ allora che la magia prende forma lasciandosi dietro qualsiasi concettualizzazione e non resta che godersi le sue grandi canzoni.
E che canzoni! : una lunga sequenza di hit che monetizzati assomiglierebbero al totalizzatore di un Telethon personale, senza tralasciare nulla, neppure “Alfie”, cantata come se te la stesse strimpellando al pianoforte del tuo salotto, neppure “Windows of the world”, scritta contro la guerra in Vietnam, il cui testo tradotto va sui grandi schermi a fianco dell’immenso palcoscenico.
Insieme a lui una band in cui si fanno notare i tre cantanti e tra essi un italiano americano, John Pagano, che ti fa venire naturale chiederti perché Michael Bublè sì e lui no!.
Capisci così dal cast vocale che quella per i cantanti deve stata per Burt e i compositori come lui, i produttori come Phil Spector, e molti altri della sua generazione, una bella fissazione, un chiodo fisso che se ben battuto risolve e chiude e porta a casa una grande composizione.
Da “anyone who had a geart”, a “what’s new pussycat”, da “do you know the way to San Jose “ a “ What’s friends are for” fino agli esordi di “magic moments” la lista è troppo lunga per essere riportata interamente.
Adesso la platea freme, l’emozione si insinua anche in quelli che questa sera sono qui solo perché non si doveva mancare. Per un attimo provi a pensare cosa “sente “ lui in questo momento. Perché ognuno di questi temi, ognuna di queste canzoni sono entrate talmente profondamente nel nostro immaginario collettivo che sono ormai soprammobili permanenti e insostituibili del nostro vivere, ancore di salvezza per questo o quel ricordo, amici insostituibili di un momento. E gli amici servono a questo.

Ernesto de Pascale

foto Giulia Nuti


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