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Al Kooper Black coffee
(favored nations)
www.alkooper.com
The return of the real keeper of the gate, his first “real” solo album in 30 years. A welcomed return to form of one of the last few true originals, and it really cooks
Se il nome di Al Kooper vi suona nuovo, prima di leggere questa recensione, dedicate tutto il tempo necessario a scoprire l’uomo che ha suonato su “Like a rolling stone”, che ha formato i Blues Project e i Blood, Sweat & tears e scoperto band, le più disparate, dai Lynyrd Skynyrd ai tubes e prodotto album, i più differenti fra di loro, da Eddie & the Hot Rods alla colonna sonora di “Cry Baby” di John Waters, professore della Berklee College of Music con un dottorato della Five Towns College.
Al Kooper non è mai stato un tipo semplice e a volte le sue idee lo hanno allontanato da quella più vasta considerazione che un personaggio del suo calibro si meriterebbe fin da quando appena ventenne non scrisse “this Diamond Ring”, numero uno in classifica in America, per Gary Lewis.
Al ha però sempre voluto fare le cose a modo suo e con il suo comportamento scostante (forse quello di chi è una star prima ancora che qualcuno glielo certifichi e sempre e solo in mezzo a talenti e star è vissuto) si è fatto nei decenni molti amici a partire dalla Sony che tiene ancora fermi i suoi bellissimi album da solista (il primo è del 1968, “i Stand Alone” e si va avanti con poche interruzioni fino al 1976).
Kooper, da grande talento quale è, non ha mai avuto veri problemi comunque ad andare avanti da solo o accompagnato non importa! per arrivare fino ad oggi con ancora un pugno di buoni brani originali e qualche canzone scritta insieme a questo o quel collaboratore.
“ Black coffee” torna sulle strade del vecchio amore per il blues ed è curioso recensirlo sulle pagine de Il Popolo del Blues proprio nello stesso numero in cui il vostro recensore ha dedicato spazio a David Clayton-Thomas, il cantante canadese che nei Blood Sweat & Tears, la band nata per mano di Kooper, proprio ad Al prese il posto di principale voce dell’ innovativa formazione.Come tutti i dischi di Al Kooper “black coffee” però non è solo un disco di blues ma una collezione di canzoni scritte con classe che spaziano in quegli amori che hanno caratterizzato da sempre la intensa vita di Al (se riuscite cercate, pur fuori catalogo, la sua biografia “backstage passes”, uno dei più bei libri autografi del rock). Si comincia con la splendida” My hands are tied” e, attraverso un paio di brani dal vivo che dimostrano la fragranza della band, si arriva a una bella collaborazione con Dan Penn (“going, going, gone”) e a un brano conclusivo dedicato alla memori di Richard Manuel e Rick Danko di The Band, davvero toccante. Al Kooper è davvero saggio e il disco è una indicazione di questa saggezza che gli ha in qualche modo salvato la pelle nella follia del rock & roll world. Grazie a un proprio magico rigore e a regole tutte sue ha mantenuto intatta la sua autorevolezza anche quando i numeri non lo confortavano più, nonostante difficoltà intercorse ( Al Kooper è non vedente al settanta per cento). Al canta con quella voce fragile e personale che i più adulti conoscono e ricordano bene e tutto l’album ha le carte in regola per mettere le basi per una tournée in Europa tanto sperata e desiderata, dai suoi ancora numerosi fans di qua dell’oceano. In “am i wrong”, blues in cui si esibisce a tutti gli strumenti, Kopper (una parte di sangue italiana, tiene a ricordare) predilige le atmosfere intime alla J.J. Cale e il tono dimesso del blues: Ed è questo uno die pregi dell’intero disco: niente pomposità, nessuna magniloquenza. Solo un buon, anzi ottimo, risultato finale per un artista ancora grande.
Ernesto de Pascale
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