Trippy second album from prime ministers of the English’s prog folk movement
Possono piacere più in Europa continentale che in Bretagna, terra d’origine dei Circulus, giunti al loro secondo album e lanciatissimi sulla scia del The Green Man festival edizione 2006. Questo è possibile perché il nuovo, secondo, album della band guidata dal cantante, chitarrista e compositore Michael Tyack, vivrebbe meno di paragoni adando a colmare il vuoto lasciato anni fa da band importanti ed amatissime sul suolo continental, forse più che nella loro terra d’origine.
Il gruppo di Tyack , uno che questa roba la suona da dieci anni, si presenta con un secondo album meglio congegnato del precedente che somma molti stili derivativi ma tutti trattati con una certa, inoppugnabile, sobrietà. Folk rock, progressive, certo acid jazz e chiari riferimenti a Jethro Tull, Gentle Giant e Renaissance rendono i Circulus amabili presso il pubblico adulto così come presso quanti vivono sull’onda del nuovo movimento folk inglese e sono alle prime armi con questo genere di ascolti.
I momenti migliori del disco sono quando dalle retrovie le linee contrappuntistiche del moog di Oliver Parfitt e i fiati di legno di Will Summers vengono a galla e rispondono alle voci di Tyack e della vocalist francese Lo Polidoro.
Si parte con “Dragon’s dance” dal tono epico e sinuoso e dal tema davvero primi settanta per continuare con “Song of our despair”,uno dei migliori brani del disco, netto passo avanti nella scrittura. In “Willow Tree” il gruppo ricorda i minori Ben ( una sottovalutata band su Vertigo ) mentre in “Wherever she goes” mischiano un medium groove a un sound più moderno mentre le modulazioni armoniche giocano su sviluppi armonici consolidati.
Bravo è Tyack e i suoi a dare continuità al disco e la produzione di Kit Woolven non è mai aggressiva. Lo strumentale “To the fields” apparentemente inutile su disco, funziona benissimo dal vivo con la sua struttura punto a capo.
Molti altri possono essere i termini di paragone da chimare in causa con i Circulus al punto tale che può essere divertente scoprire questa o quella similitudine se avete del tempo da perdere. Alla fine dei 42 minuti di “Clocks are like people” dei Circulus si può addirittura restare interdetti, specialmente se è il primo ascolto e se si guarda indietro senza ironia.
Meglio lasciarsi però andare al fluire di un album ben costruito e modulato, al suono di una band che ha potenziale da esprimere e prendere i Circulus per ciò che sono, meravigliandosi addirittura che ci siano giovani in grado di trattare il genere con così tanta pertinenza.
Ernesto de Pascale
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Track list
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