. Aretha Franklin – Live at the Fillmore West
madeleine peyroux Aretha Franklin – Live at the Fillmore West
(Rhino)

Bill Graham sapeva bene che i giovani di colore del ghetto nero di Fillmore per accettare il via vai dei tanti longhairs che dall’estate 1966 in poi cominciarono a trafficare intorno al locale, una vecchia ballroom oramai decaduta - preso in affitto dal tenace imprenditore con poco più che un tozzo di pane per organizzare ”balli psichedelici” - dovevano essere ripagati a cadenze regolari dalle esibizioni propri idoli.

Sin dagli anni quaranta infatti nello spaziosa sala da ballo di San Francisco, si erano susseguiti i più grandi nomi del Rythm & blues e del jazz, dall’orchestra di Erskine Hawkins fino a James Brown, da Duke Ellington a Ray Charles, fino a Sam Cooke e Jackie Wilson e Bill Graham era determinato a proseguire questa tradizione.

Il locale, al primo piano di un caseggiato fra Geary & Fillmore in cui ancora troneggiavano vecchi lampadari a goccia e divani chester residui dei fasti degli anni trenta, era nato per soddisfare il pubblico multirazziale e nei precedenti decenni aveva contribuito fattivamente all’esplosione del blues californiano. Con il fiuto tipico dell’organizzatore di talento, Bill Graham non dimenticò mai questa lezione, inventandosi un luogo di aggregazione che non aveva precedenti al mondo..

Graham non era un intenditore di musica, ma un uomo che aveva fiuto e che conosceva la scena sia da prima dei suoi anni con la Mime Troupe californiana, sin dai duri anni di apprendistato a New York City nell’immediato dopoguerra. Bill sapeva però riconoscere un successo, aveva imparato ad amare la musica nera, si fidava di poche, selezionate persone e, soprattutto, aveva capito che qualcosa stava cambiando.

Nel 1971 le cose che stavano cambiando però erano definitivamente cambiate. Il Fillmore auditorium con già cinque anni e un trasloco sulle spalle aveva dato voce non solo ai gruppi che avevano creato fra quelle quattro mura il cosiddetto San Francisco Sound ma ad artisti neri quali Otis Redding, Albert King - accompagnato dal gruppo interrazziale Booker T & The Mg’s - fino agli showmen Sam & Dave. L’amicizia di Graham con il produttore bianco Jerry Wexler era il presupposto di quella che oggi chiameremmo sinergia e che valse all’etichetta Stax( l’etichetta degli artisti citata, distribuita dalla Atlantic di cui Wexler era socio ) una eccezionale esposizione sul mercato dei giovani.

I cachet degli artisti erano però cresciuti esponenzialmente e nella primavera 1971 Bill era già sicuro di quella che sarebbe stata la sua prossima mossa: chiudere i battenti del Fillmore di San Francisco e di quello di New York City, acquisito con un raggiro e con ‘aiuto di un italoamericano Frank Barselona, nel 1969.

Graham, con buona pace degli hippies, delle comunità alternative, della Woodstock generation, e di c’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, sapeva con matematica certezza che si sarebbe dedicato da quel giorno in poi solo a spettacoli in sale più grandi come il Winterland di San Francisco, un pattinatoio riscosso con un piato di lenticchie, che avrebbe finalmente affrontato vere e proprie produzioni, che si sarebbe potuto divertire a svolgere a tempo pieno l’attività di manager - che era poi quella in cui dava il meglio della sua divertita bastardaggine brandiana.

Proprio in coda al 1970, dopo qualche telefonata premonitrice con un altro upcoming jews Marshal Chess, fresco presidente della Rolling Stones records, aveva capito che se nell’anno successivo si fosse ritagliato del tempo libero avrebbe potuto riportare sul territorio americano i Rolling Stones che mancavano dagli States dalla nefasta serata ad Altmont, manifestazione a cui Graham si oppose da sempre. L’idea di una rivincita su Jagger piaceva tantissimo a Graham che non perdeva l’occasione per lanciare strali al gruppo inglese.

L’ebreo newyorchesi fra i più potenti del nuovo continente voleva però, nei pochi mesi che lo separavano dalla chiusura delle sale Fillmore, divertirsi ancora un po’ e togliersi gli ultimi sassolini dalle scarpe.

La lista dei suoi personali beniamini che ancora non aveva messo piede sul magico palcoscenico della ballroom di San Francisco si era oramai assottigliata decisamente e i mancanti si contavano sulle dita di una sola mano.

Due di essi erano neri. Erano Aretha Franklin e Ray Charles.

Aretha, la reticenza in persona, Miss No, non amava Graham perché i suoi “osservatori” avevano fiutato l’uomo Bill e lo avevano visto all’azione. Ma la Franklin non era rimasta impassibile davanti all’ottima promozione che Graham stava facendo del suo personale operato.

Già agli inizi dell’estate 1970, sull’onda del successo del nuovo singolo della Franklin, “Spirit in the dark”, Wexler, un produttore con le idee chiare, che da tempo ipotizzava per Aretha un totale abbattimento delle barriere fra pubblico nero e bianco e la registrazione di un album live in un locale “riconosciuto come tempio del rock”, si era fatto carico di inviare a Bill, accompagnato da un biglietto vergato di proprio pugno, un test pressing del nuovo album della Franklin che sarebbe stato pubblicato solo il settembre successivo, invitando Graham a riflettere su un “grande evento con la Franklin per protagonista”.

Bill Graham, complice il tempo tiranno, non esitò a compiere un gesto che nessun altro agente al mondo avrebbe mai compiuto e cioè chiedere espressamente a Jerry Wexler affinché “intercedesse” con la Queen Booking, l’agenzia della Franklin diretta da Ruth Bowen, la prima donna nera a capo di una agenzia di concerti in America, per una serie esibizioni di Aretha presso la sala Fillmore di San Francisco formulando come unica condizione un preciso periodo perché ciò potesse accadere, e cioè il marzo dell’anno successivo, in vista della chiusura del luglio 1971.

Questo gesto di “sottomissione” piacque moltissimo alla Bowen ed ad Aretha che si accordarono così con Wexler in persona per la registrazione di un disco dal vivo durante le serate di San Francisco. Mossa anche questa straordinaria e non scontata perché esentò sia Graham che Wexler dal pagare un cachet intero all’artista sia per la performance (Bill ) dal vivo che per l’utilizzo su disco ( Jerry ) , in cambio di future royalties dal disco ( ad entrambi ) e un fee minimo come commissionato da worker’s union (in verità era un double scale visto i presupposti delle serate che i Graham e Wexler pagarono con le loro rispettive società).

Graham però non era però ancora contento; da bravo workhalcolic visionario quale era voleva che quel disco restasse come qualcosa di speciale nella storia degli album live. Ricordandosi così dell’utilizzo della sala Fillmore negli anni cinquanta come ballroom e delle frequenti esibizioni di Ray Charles ( la leggenda vuole che “What i’d say” abbia debuttato proprio lì!) non si staccò dal telefono fino a che non convinse l’agente di Ray a tenere dei concerti nella Bay Area proprio nei giorni adiacenti a quelli di Aretha e a organizzare due day off proprio durante due delle tre sere della Franklin al Fillmore.

Singolare il frangente dell’organizzazione del duetto: l’incontro dei due grandi artisti di colore venne deciso al telefono da Graham dai divani dell’ appena acquistato chalet a Thonon sur Bains, una ridente località turistica che affaccia sul lago di Ginevra, in Svizzera, acquistato per “motivi fiscali”. Recatosi a visitare il suo nuovo investimento assieme alla fidanzata e sbarcato con un volo intercontinentale a Ginevra, Graham non mollò l’apparecchio telefonico del suo rifugio per tutta la notte. Giunto al mattino insonne convocò la compagna per ripartire immediatamente per la West Coast esclamando: “cara, stanotte mi sono ripagato questo country shack “(termine con cui i venivano denominate le catapecchie dei neri lungo Mississippi ).
Bill Graham non avrebbe mai più messo piede nel suggestivo chalet montano di 11 stanze e 3 camini. ( fonte :intervista dell’autore ad Harrison Ford ( 1998) e al Jerry Pompilii manager negli anni novanta della Bill Graham production (1997 ), entrambe le fonti confermate da Phil Lesh ( 2000)).

Wexler si rese conto che avrebbe potuto finalmente dare ad Aretha la band che The Queen of soul si meritava. Solita esibirsi con una anonima showband di Detroit, Jerry, in un’epoca in cui ci si poteva permettere a buona ragione delle manie di grandezza, voleva al seguito della Franklin la miglior sezione ritmica che potesse riprodurre la produzioni di studio.
Vennero così ingaggiati il giovanissimo Cornell Dupree alla chitarra, il consumato Jerry Jemmott al basso e Bernard Purdie alla batteria con Billy Preston all’organo hammond fresco delle session con Gorge Harrison e Truman Thomas al piano elettrico.
Per un po’ di real Memphis Soul Stew il produttore fece volare i Memphis Horns al gran completo ( Andrew Lowe alla sax e Wayne Jackson alla tromba aumentati da Jack Hale al trombone, Roger Hopps alla seconda tromba, Jimmy Mitchell al baritono e Lou Collins al sax tenore ) ai quali affidò gli arrangiamenti del fido Arif Mardin e quelli di Larry Wilcox e Tom Dowd ( il celebre tecnico residente della Atlantic scrisse quello di “don’t play that song” fischiettando !…).
Jerry confermò ai cori The Sweetharts of Soul per un motivo espressamente politico e cioè perché il trio composto da Margaret Branch e Pat Smith era guidato da Brenda Bryant, cugina di Aretha. Considerato che il nuovo manager della Franklin era il fratello reverend Cecil Franklin che aveva preso in consegna il potere precedentemente dato all’ex marito Ted White, era facile intravedere nella mossa del produttore Wexler la ferma intenzione di bilanciare i “nuovi arrivi” con una controparte friendly & familiar.

La Atlantic si rese conto fin da subito che l’evento poteva costituire una fonte incredibile di successo, di autorevolezza sul mercato e di ineguagliabile catalogo nei decenni a venire.

La decisione di affidare la direzione d’orchestra King Curtis fu un’altra mossa strategica, nata nelle circostanze più singolari. Curtis Ousley, legato alla Atlantic sin da quando nel 1958 partecipò alle sessions per The Coaster, Clyde Mc Phatter e Chuck Wills era uno dei più affidabili bracci destri dell’etichetta.

Negli anni si era bruciato però una buona parte dei soldi guadagnati con i successi di “Soul Serenade” (1964), “Memphis Soul Stew”, “Ode to Billy Joe”(entrambi del 1967 dai dischi “King Curtis plays the The Great Memphis Hits “ e “King Size Soul”), giocando a carte proprio con fratelli Ertgun, Ahmet ed Nesuhi fondatori della Atlantic.

Reticente alla prima proposta di dirigere The Kingpins – come venne chiamata la sezione ritmica della serata – accettò solo quando perse una “mano” di poker con gli Erthgun. Nell’agosto 1971 lo trovarono riverso in una pozza, sotto un ponte a New York City, si dice, per debiti di gioco non pagati.

“Aretha at the Fillmore west “ resta come la più fulgida testimonianza live della cantante nera di tutta la sua interminabile gloriosa carriera. Disco giusto al momento giusto nel posto giusto. La combinazione di materiale eccellente, musicianship stellare, skillful production, intuito manageriale, accettazione dei termini e anche un po’ di culo rendono l’album impedibile e la nuova versione expanded ancora più interessante per capirne l’essenza e il modus operandi di un gruppo di lavoro che la Franklin non avrebbe mai più avuto alle sue spalle, evento quindi unico ed irripetibile. Combinato con il “live at the Fillmore West” di King Curtis è possibile riprodurre una perfetta fotografia delle tre serate. Adesso non resta che aspettare il dvd visto che il concerto venne intermente filmato. Per il piacere di quanti non erano presenti.

Ernesto de Pascale

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