NIGHT CLUB
Se lo conoscevi, lo frequentavi...
(brevi annotazioni per chi non c’era)
Le luci si abbassavano. Un inserviente portava due alte candele, le appoggiava a terra e le accendeva. Una musica d’organo sottolineava la scena con le prime battute dell’Ave Maria di Schubert mentre un uomo di colore entrava, si inginocchiava e cominciava a cantare “Angeli negri”.
Questa rappresentazione, commovente e un po’ kitsch, non si teneva in una chiesa ma in un locale notturno ed era un’anomalia che non aveva niente a che vedere con l’ambiente anche se l’interprete, Marino Barreto jr., era uno dei re della notte, uno che quando si trattava di creare l’atmosfera giusta non scherzava, con quelle che lui definiva snobisticamente sambe lente ma in realtà erano boleri che, grazie alla sua voce un po’ nasale e cantilenante, diventavano delle bombe erotiche che favorivano il ballo di coppia a strettissimo contatto. “Visino di angelo”, “Non illuderti”, “Arrivederci”, erano alcuni dei cavalli di battaglia di questo cubano di Matanzas che trovò fortuna in Italia e purtroppo scomparve troppo giovane, quando ancora avrebbe potuto dare molto.
Il night club (tout court: il night) conobbe il suo periodo di maggior fulgore intorno agli anni ’50 e, normalmente, era aperto dale 22 alle 4 del mattino (alle 5 il sabato), salvo prolungamenti a porte chiuse quando capitava il personaggio di riguardo che desiderava fermarsi ancora un po’ ed era disposto a spendere delle cifre in champagne e tartine al caviale per lui, per gli amici e soprattutto per le ragazze del locale, ragazze che erano dette entraineuses (letteralmente: intrattenitrici), carine e capaci di divertire e far passare un paio d’ore spensierate, senza per questo essere così facilmente arrendevoli come il luogo comune faceva credere. Il finale, infatti, quasi sempre vedeva il cliente che usciva beato e barcollante dal locale, da solo, mentre le ragazze si fermavano a conteggiare con il proprietario i tappi che avevano collezionato (un tappo per ogni bottiglia aperta), sui quali veniva loro riconosciuta una percentuale a titolo di bonus da aggiungere al normale compenso giornaliero.
Questo era il lato folkloristico del night, quello che ne diffondeva l’immagine di ambiente proibito e rovinafamiglie, ma occorre precisare che queste cose succedevano di norma dopo le due, quando cambiava il tipo di clientela e di atmosfera: fino a quel punto, infatti, il locale era frequentato da persone e coppie di ogni età che volevano passare una serata ballando, bevendo qualcosa o mangiando (dipendeva da quanto potevano permettersi, dato che i prezzi erano piuttosto alti), ascoltando nel frattempo musica dal vivo.
Beninteso, stiamo parlando di ritrovi al top, con un nome consolidato ed una reputazione da mantenere ed è inutile negare che esistevano anche locali notturni di seconda classe, di terza e, specie in posti isolati e fuori città, di genere e categoria indefinibili, dove poteva succedere di tutto e dove il frequentatore cercava l’avventura facile e le entraineuses miravano al guadagno immediato, con tappi o senza, imboccando tutte le scorciatoie possibili per arrivarci nel più breve tempo possibile.
I locali di prima categoria erano di solito dislocati vicino al centro della città e, a titolo informativo, ne cito alcuni fra i migliori: Caprice, Astoria e Porta d’Oro a Milano, Rugantino, Rupe Tarpea e Taverna dell’Orso a Roma, Perroquet e Moulin Rouge a Torino, Lloyd Club a Napoli, Joker Jolly a Bologna, Open Gate a Firenze e così via.
In estate poi aprivano i night sul mare e, in attesa che si affermasse la Sardegna, la zona dei vip era considerata quella situata nella fascia che parte da Santa Margherita e arriva fino a Viareggio, comprendendo la Versilia: chi non è più giovanissimo avrà certamente sentito parlare del Covo, della Bussola, della Capannina mentre sull’Adriatico, meno chic ma, comunque sia, ben frequentato e ancora senza discoteche, c’erano il Savioli a Riccione e l’Embassy a Rimini.
Andando in uno di questi locali (e questo è ciò che a noi interessa) si era sicuri di poter ascoltare la musica di moda eseguita da gruppi e interpreti di grande levatura e talmente di successo da poter avere un’orchestra di spalla che apriva e chiudeva la serata.
Il programma più o meno prevedeva dalle 22 alle 23 la seconda orchestra, dalle 23 alle 24 l’artista top, dalle 24 all’1 uno spettacolo con balletti, attrazioni e strip tease, dall’1 alle 2 di nuovo l’artista importante e poi la seconda orchestra che terminava.
Ho ricordato all’inizio Marino Barreto jr. e, per dare l’idea di quale fosse il livello degli intrattenimenti musicali, elenco qui di seguito alcuni dei complessi che, come quello di Barreto, allietavano le notti degli italiani negli anni ’50.
Primo fra tutti Renato Carosone che, partito da Napoli con un trio insieme a Van Wood e a Gegé Di Giacomo, formò in seguito un quartetto e poi, sull’onda di un successo travolgente, un quintetto, sempre con musicisti di prima scelta. Sappiamo tutti poi come Carosone divenne una star internazionale e si esibì in locali e teatri di tutto il mondo.
Ma colui che per il genere musicale proposto più si adattava alle atmosfere notturne era Bruno Martino, affiancato dall’ottimo Carlo Pes alla chitarra e dal bassista e geniale autore di testi Bruno Brighetti. Martino soffrì forse di troppa musicalità e raffinatezza e non raggiunse mai il consenso popolare ma, di contro, alcune sue canzoni (“Estate”, “Cos’hai trovato in lui”, “Baciami per domani”, “E la chiamano estate”, ecc.) sono diventate dei classici eseguiti ancora oggi.
Peter Van Wood, staccatosi da Carosone, costituì un quartetto il cui pianista, Bruno De Lucia, era uno dei più quotati del momento. Van Wood ottenne subito il favore del pubblico grazie ad una simpatia contagiosa, ad una stramba pronuncia italiana e all’uso divertente che faceva della sua splendida chitarra Gretsch White Falcon, additivata con effetti d’avanguardia. Alcune delle canzoni più richieste: “Butta la chiave”, “Mia cara Carolina”, “Montenapoleone”.
Il night era anche terreno di caccia per i paparazzi che, come “La dolce vita” ci ha mostrato, vivevano di scoop e di foto rubate ad artisti e soprattutto a vip che credevano di isolarsi in un angolo nascosto e venivano puntualmente scovati ed immortalati da un improvviso flash che, a volte, scatenava furibondi litigi e minacce di querele, concluse immancabilmente a tarallucci e vino, tanto si sapeva che un po’ di pubblicità giovava sempre.
Gli impianti audio dei gruppi al top erano il massimo che allora si potesse sognare e il re dei costruttori era Semprini, caro ma indubbiamente tre spanne sopra gli altri come qualità. Avere un impianto Semprini autorizzava già a sentirsi più importanti e a tranquillizzare i gestori dei locali, che con una tale referenza sapevano di avere a che fare con un’orchestra giusta. L’unico neo degli impianti Semprini era l’eco, il cui nastro ogni tanto si inceppava o si spezzava, ma intervenne l’ing.Bini, con sede in Viale Padova a Milano. Bini, oltre ad aver messo sul mercato un ampli per chitarra che fece epoca (il famoso Binson 3, piccolo e maneggevole), inventò l’Echorec, un eco praticissimo che utilizzava una piastra rotante letta da diverse testine che potevano dare effetti lunghi, corti e medi con equalizzazioni diverse.
Tornando ai complessi, un altro nome era quello di Marino Marini, con un giovanissimo Totò Savio alla chitarra: fra le sue interpretazioni di successo c’erano “La più bella del mondo” e “Marina”.
Una menzione a parte la merita Fred Buscaglione con i suoi “Asternovas”. Fred, con il bicchiere di whisky in mano, ironicamente interpretava il ruolo del duro, come gli suggerivano certe canzoni con testi del grande Leo Chiosso: “se c’è una cosa che mi fa tanto male è l’acqua minerale…”. Come Barreto, anche Buscaglione finì troppo presto la sua vita, stavolta non per malattia ma a causa di un camion che un mattino a Roma andò a sbattere contro la sua famosa e inconfondibile Thunderbird rosa.
Mi piace insistere sul concetto che, almeno nei buoni locali, il livello della musica che si poteva ascoltare era di prima qualità e valeva senz’altro il costo della consumazione. Il repertorio era costituito da brani scritti dal leader alternati alle canzoni internazionali del momento, eseguite rigorosamente in lingua originale.
Erano di solito bravi anche i vocalist che, spesso, ispiravano il proprio stile a quello di un big internazionale.
Ricordo per esempio di avere ascoltato Sergio Endrigo, con il quintetto di Riccardo Rauchi, cantare “A certain smile” come Johnny Mathis. Oppure Fred Buongusto, allora con “I quattro Loris” e prima di diventare il cantore di “Doce doce” e “Malaga”, sussurrare ad occhi chiusi “Smile” con le stesse inflessioni e la pronuncia aperta di Nat King Cole. O, ancora, Piero Giorgetti, ex cantante di Carosone, presentare il repertorio di Sinatra che se chiudevi gli occhi sembrava lui. Nicola Arigliano invece, prima di incidere “Amorevole” e “I sing ammore”, accompagnato da Franco Cerri ed Enrico Intra, sfoderava un’ intera serie di standard americani cantati da rimanere senza fiato. In questo caso, bisogna riconoscerlo, Nicola era già lui e non subiva nessuna influenza: fin dall’inizio è stato Arigliano, con il suo swing misurato e la sua voce inconfondibile.
Come succede abbastanza di frequente nelle attività umane, anche in campo artistico c’è chi meriterebbe e non ha il riconoscimento che gli spetta, così è il caso di ricordare due cantanti da night in possesso dei numeri giusti, musicalità di primordine, originalità vocale e presenza scenica, ma che nonostante questo non sono riusciti a farsi apprezzare dal grande pubblico: si tratta di Fausto Mola e di Piero Cotto.
Fra i bandleader ce n’era qualcuno poi che si distingueva, oltre che per la musica, per uno stile di vita sui generis.
Ad esempio Franco Rosselli, fiorentino arguto, lingua pronta e grande comunicativa, non nascondeva di essere gay e ci scherzava sopra (in quell’epoca, ancora legata a forti pregiudizi, non era facile ammetterlo). Rosselli era il cantante batterista del gruppo “Franco e i G5”, specializzato in musica latina e parodie: una delle sue caratteristiche era infatti quella di prendere delle canzoni e trasformarle cambiandone testi e ritmiche, rendendo godibilissimi dei brani che in partenza erano delle lagne insopportabili.
Questo era un altro merito dei complessi che agivano nei locali notturni: costretti dalle richieste del pubblico ad eseguire brani che nella loro versione originale sarebbero stati improponibili e fuori logica per l’ambiente nel quale operavano, i capiorchestra li adattavano e li trasformavano fino a snaturarne l’essenza, così da farli diventare potabili. A questo proposito, probabilmente non tutti sanno che la parodia che Franco Rosselli fece di “E la barca tornò sola” era molto più riuscita di quella che incise Renato Carosone: la radio non mi pare che la trasmise mai o, se lo fece, fu per un limitatissimo numero di volte e credo che la ragione sia da ricercarsi nel fatto che la parodia era non poco irriverente nei confronti dell’originale. In un periodo in cui le canzoni italiane singhiozzavano a base di mamme, amori finiti male, torrenti e usignoli, forse si era ritenuto che fosse troppo azzardato prendere in giro un brano che descriveva una cupa tragedia marinara con triplice sacrificio finale.
Un altro toscano doc che lasciò il segno era Gastone Parigi, il quale, al contrario di Franco Rosselli, passava per un gran puttaniere. Pur essendo un buon animale da palcoscenico, non era un fenomeno, né come cantante, né come trombettista ma ovviava con la signorilità della sua presenza, circondandosi di ottimi musicisti che lo sostenevano a dovere. Si diceva che fosse molto richiesto dalle signore non più di primo pelo ma ancora in spolvero, soprattutto mogli di uomini facoltosi vicini alla terza età. Si sussurrava dunque che a queste ammiratrici Gastone, faccia da mascalzone e stile da figlio di buona donna, non disdegnasse i suoi favori, tanto da avere un piccolo harem in ogni città dove periodicamente tornava, guarda caso, a grande richiesta femminile.
A parte queste considerazioni colorite che, se prese con lo spirito giusto, possono contribuire a rendere l’idea di come fosse variegato e umanamente stimolante l’ambiente del night, è giusto sottolineare una volta di più che, in un’Italia dove il Festival di Sanremo era ancora la maggiore manifestazione musicale di riferimento, dove la radio era una, nazionale e un bel po’ confessionale, il night, oltre ad essere considerato luogo di perdizione da chi non lo conosceva da vicino, era anche un catalizzatore di musicisti e interpreti di rango e un ritrovo dove si poteva ascoltare buona musica e l’appassionato, che lo sapeva, lo frequentava volentieri.
Naturalmente, guardandosi bene dal trattenersi nel locale dopo le due!
Rinaldo Prandoni