. |
CHET BAKER, UN MITO DEL JAZZ, AL NAIMA CLUB di Forlì Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Michele Minisci, patron e direttore artistico del celebre Naima Club di Forlì, questo affezionato ricordo di Chet Baker, del quale è appena ricorso il ventennale della scomparsa. Nonostante le brutte vicissitudini in cui incappò, anche nel periodo italiano, la fama di Chet, ”musicista maledetto”, bello e dannato, il James Dean della musica jazz, perdurava ancora con forza, e le sue performances alternavano momenti di grande intensità e lirismo ad altri di mediocre rendimento. Ma in ogni modo sempre da vedere, da sentire. Per noi era la prova del fuoco: un mito della musica jazz, Chet Baker, stava per venire a suonare nel nostro club. L’attesa fu veramente spasmodica e l’emozione mi attanagliava le viscere. La sera del concerto, la band di Chet era già al Ciaika, il flautista Nicola Stilo, il contrabbassista Riccardo del Prà, il pianista Michel Grailler, avevano fatto già il sound cheek con Romano Lombardi al service, e al seguito il giovane figlio Renato, allora appena diciottenne, ai suoi primi smanettamenti sulle manopole rosse e nere del mixer luci, sotto l’occhio sempre attento e burbero di suo padre. Li avevamo accompagnati al ristorante vicino, il Baiocco, per la cena. Chet non aveva bisogno di provare. Ed ora non rimaneva che aspettare la gente ed andare a prendere Chet all’Hotel Masini, nel centro di Forlì. Alle ore 21,30, con il sudore che mi scendeva per tutta la schiena, lo stomaco rattrappito e le budella sottosopra, l’ansia che mi impediva di respirare regolarmente, perché non sapevo se la gente sarebbe venuta in massa, almeno per coprire le spese, era la nostra prova del fuoco, mi misi in macchina per andare a prendere Chet in albergo. Stati d’animo, sensazioni ed emozioni che mi avrebbero poi accompagnato per tutti i concerti che ho organizzato, da allora ad oggi. Arrivato in albergo, colpo apoplettico: il portiere mi assicura che “il signor Baker è appena uscito”. All’ansia si accumula altra ansia, momento drammatico, spasmodico. Mi precipito fuori, guardo a destra ed a sinistra, con l’angoscia che mi si spande sempre più nel petto e mi prende la gola, ma non vedo nessuno con una custodia nera per tromba sotto l’ascella, un giubbottino grigio sulle spalle ricurve, jeans scoloriti, il passo incerto e ciondolante. La paura mi attanaglia le gambe, la paura di averlo perso, infilato in chissà quale bar a bere un altro cicchetto, la paura di non ritrovarlo in tempo per il concerto, con tutte le conseguenze del caso. Il mio angelo custode, però, forse l’angelo di tutti i jazzisti, mi dice che devo andare a destra, verso il fondo di Corso Garibaldi. Mi incammino frettolosamente facendo capolino dentro tutti i bar del corso e…finalmente lo vedo: è seduto nel bar di piazza Melozzo che sorseggia un Trebbiano, seduto con l’astuccio della tromba tra le gambe, lo sguardo fisso sul bicchiere, come se aspettasse qualcuno, o dovesse far passare il tempo. Mi viene voglia di piangere, per un po’ mi si annebbia la vista e poi, dopo due o tre forti sospiri, mi avvicino con fare goffo ed impacciato e dico a Chet, col mio inglese approssimativo che sono il “promoter” del Naima club e che ci aspettano per il concerto. Il resto è storia. Storia della musica in questa città, anche se non è stato un concerto “storico”. Chet stava certamente bene, stava attraversando un buon momento, ma il suo momento magico era però passato. Aveva lasciato al piano di Michel Grailler le prime battute del pezzo e poi era subito entrato lui, in maniera soffusa, quasi con noncuranza, come stesse continuando un discorso musicale interrotto qualche tempo prima, per riannodare qualche filo rimasto sospeso, aggrovigliato.
Era come se niente fosse successo in questi suoi ultimi, travagliati, anni, tra successi travolgenti, amori disperati, l’eroina, i problemi con gli spacciatori, il carcere. Niente. Tutto dietro le spalle, in quel momento soffiava dentro la sua tromba solo il respiro della sua anima, non gliene fregava niente di sapere che, nonostante tutto, esercitava ancora sul pubblico un fascino quasi morboso non solo per la sua storia musicale ma anche per la sua “vita spericolata”, esisteva solo lui e la sua tromba. E mentre le note di un’eccellente “Petit Fleur”, di Sidney Bechet, sfumavano dolcemente tra gli applausi scroscianti del pubblico del Ciaika, ecco che Chettie, così lo chiamava spesso sua madre, Vera, inizia a cantare, senza alcun accompagnamento, la mitica “Blue Room”, pezzo per sola voce, che raramente proponeva nei suoi ultimi concerti. Un momento veramente magico. Poi aveva concesso molto spazio ai suoi compagni, anche troppo, forse per riposare, riprendere fiato perché si vedeva che si stancava presto. Ma non appena rientrava nel pezzo, ti sembrava di sentirlo suonare come avesse ancora accanto Gerry Mulligan o Stan Getz, e di rivederlo sui palchi di tutto il mondo, osannato come il miglior rappresentante di quella “lost generation” che aveva tracciato negli anni cinquanta un nuovo corso musicale nella storia del jazz. Chet aveva suonato per tutto il tempo seduto su una sedia, con le gambe a cavalcioni, con quegli stivaloni da cow boy che ogni tanto mandavano un luccichio strano, per alcune borchie argentate incollate sui lati, e quella sera aveva cantato più del solito, cinque brani, invece delle solite tre canzoni d’ogni suo concerto, con una memorabile “My Funny Valentine”, verso la fine, forse per farsi perdonare della paura e della sofferenza che mi aveva inflitto. La sua voce sottile, delicata, sofferta, a volte infantile, mi è rimasta dentro il cuore per molto tempo, così come mi si sono rimaste impresse nella memoria le rughe del suo viso, profonde ed antiche, come se solcate da fiumi impetuosi di dolore, ma che nello stesso tempo mi sembravano rifugi, anse, porti, dove la sua anima poteva trovare pace e tranquillità. La pace del genio, la pace del mito, al riparo delle tragedie che incombevano sulla sua vita. Dopo qualche anno Chet sarebbe “volato” dal quarto piano di un albergo di Amsterdam, forse spintonato da un corriere della droga, mai pagato, mettendo fine alla sua vita e spezzando un pezzetto della nostra. Era il 13 maggio del 1988.
Michele Minisci Dirart Naima club |
. |
. |