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Luciano Bianciardi

Fosse vissuto ai giorni nostri lo scrittore Luciano Bianciardi (Grosseto, 1922 – Milano, 1971) non avrebbe retto il logorio della vita moderna. A dirla tutta non lo resse neanche ai suoi tempi, lui, uomo di spirito garibaldino, che, lasciato il nativo Kansas City per una Milano abbandonata presto per un misero esilio a Rapallo, aveva messo tutti sul chi va là riguardo la più grande fregatura del dopoguerra: il consumismo.

Bianciardì pubblicò libri di successo in vita e si ribellò ad essi; si declassò, tentò di rendersi inutile senza riuscirci, di sparire di circolazione, ma la tentazione di graffiare fu più forte di lui. Quando morì nessuno lo volle ricordare degnamente per l’evidente imbarazzo che provocava in molti se non il caro Oreste del Buono in un saggio del 1976.

Negli ottanta silenzio assoluto né una ristampa importante, mentre nei primi novanta si ricordò di lui più degli altri solo il giornalista torinese Pino Corrias con una controversa biografia quasi romanzata per Baldini & Castoldi, "Vita Agra di un Anarchico".

Oggi la ExCogito riunisce gli scritti giornalistici e gli elzeviri degli esordi in un libro pieno di verità sulla nostra vita sociale di allora "L’alibi del progresso" che stupisce per la scrupolosa carrellata di personaggi fotografati con modi ed usanze oggi comuni.

Luciano, nonostante l’appellativo di "rompicoglioni", "irriverente e intransigente" e "integralista" nella Milano del boom aveva quanto meno trovato qualche scapigliato compagno d’avventura, qualche amico se lo era fatto: Gaber, Simonetta, Ripa di Meana, Fo, Jannacci, per cui scrisse le note di copertina del primo disco, Tognazzi, che aveva comprato i diritti del suo volume più famoso "La Vita agra" già nel 1962 prima di convincere qualcuno,Carlo Lizzani, a girare il film dallo stesso nome.

Pochi amici a dire il vero e tutti lontani da casa visto che quelli del bar della sua città gli avevano fatto causa per essersi sentiti tirati in ballo nel romanzo della vita agra.

I pochi amici erano poi quelli che descrisse, sotto falso nome questa volta, ne “La Battaglia Soda”, il libro del 1969 che, confessò alla sua compagna Maria Iatosti, lui amava di più, una rivitazione delle cinque giornate di Milano un secolo dopo.

Oggi Bianciardi sarebbe stato un outsider più che mai: se, all’epoca, si potè permettere di rifiutare per coerenza il posto offertogli al Corriere della Sera per una vita d’inferno da traduttore o per degli articolini corrosivi su testate come Kent o Playmen, ai giorni nostri Lucianone sarebbe passato per un idiota, un bischero, ad essere più precisi.

Lui che la vita nelle pensioncine di Brera l’aveva vista davvero, che aveva tradito la moglie e il figlio piccolo per una giornalista intelletuale romana, che tornava ad esser scrittore solo nei fine settimana dopo cinque giorni da traduttore (alla fine della vita furono circa 110 i volumi tradotti compreso il grande incontro con Harry Miller e i suoi "Tropici"), lui che aveva iniziato la sua opera di dissezione della società italiana nei pieni anni cinquanta, alla fine si arrese.

Lo scardinamento della abitudinarietà che stava e sta alla base della società media italiana doveva essere stato ponderato ben bene dal grossetano sin dalla metà dei cinquanta poichè fin dai primi scritti pubblicati in questa raccolta il Bianciardi che leggiamo è quello fluido che pochi anni dopo avrebbe portato i suoi lettori per mano nei condomini di Porta Genova e Porta Venezia ne "La Vita Agra".

Gli scritti e gli elzeviri di allora, ripubblicati oggi ne "L’alibi del progresso", diventano perciò per Luciano il banco di prova di "Il Lavoro Culturale" (1957) de "l’Integrazione" (1960), della stessa "Vita Agra" e lasciano intravedere un progetto globale che Bianciardi doveva avere ben chiaro in testa sin dagli anni universitari passati a Pisa.

Uno stile agile attraversa i quasi dieci anni del libro (1952 – 1960); qui il grossetano è più cinico che incazzato, a volte addirittura divertito, incredulo, si sente che stà scoprendo Milano e che quella città non gli va proprio giù nonostante ne accetti l’alibi del progresso, appunto.

Si percepisce chiaramente che Bianciardi, pur aspirando all’America, ha la chiara percezione di una perdita di identità che renderà da lì a poco l’Italia il paese derivativo che tutti quanti conosciamo.

Il grossetano aveva una attitudine giornalistica innata e i brevi scritti di questo volume lo dimostrano chiaramente. Essi fecero bella mostra di sè sui quotidiani d’epoca, suscitando pensieri e mantenendo forte un’etica critica che gli italiani avrebbero in gran parte perso nei sessanta. Un popolo, quello descritto, che sempre negli anni cinqunata, Ennio Flaiano aveva bollato come "…spiritualmente fascista, affascinato da una modernità eretta sull’egoismo, sulla rimozione camuffata da pacificazione".

Coloro i quali conoscono i volumi prima citati non solo esulteranno per questa edizione –la prima, pare, di una serie di ristampe e inediti – ma si divertiranno a scoprire interi passi che sarebbero confluiti poi nei suoi libri più celebri, una sorta di prova generale che mostra le qualità più prettamente stilistiche del nostro e la sua successiva crescita come scrittore.

Quelli che non conoscono l’opera di Bianciardi potranno con questo ?L’alibi del progresso? partire dall’inizio della sua carriera e magari ripercorla tutta. Sarebbe questa una opportunità da sfruttare perchè così tanta tenacia contro l’ovvio poche altre volte la si ricorda messa per iscritto. Chi si riconosce invece in quello che Enzo Di Mauro su "La Stampa" del 30 Settembre 2000 definisce a ragione "...il nuovo sentimento nazionale...l’ottimismo", Bianciardi farà meglio a lasciarlo perdere.

"Luciano Bianciardi avrebbe meritato di più in vita" confessò una volta Jannacci che è uno che non fa regali a nessuno "ma non voleva. In questo era molto stronzo. Faceva passare la voglia anche agli amici".

Nei suoi ultimi anni a Rapallo continuò a scrivere producendo un romanzo erotico (rimasto inedito), una rubrica settimanale sul ?Guerin Sportivo" (TeleBianciardi...altro che Aldo Grasso), rubrichette qui e là per giornaletti vari. La domenica, poi, se ne tornava a Milano, allo stadio, forse per nostalgia di quel consumismo che aveva così bene graffiato, senza averlo però danneggiato neanche un pò. Sperava, chissà, che qualcuno si accorgesse di lui;cercava, forse, aiuto ma era troppo timido, mite, indifeso per chiedere qualcosa a qualcuno.

Pochi mesi prima di morire venne coinvolto nella produzione del film "Il merlo maschio" con Lando Buzzanca e Laura Antoneli, (quasi) esordiente, tratto da un suo racconto. Luciano si trovò un posto da comparsa nel lungometraggio, violoncellista di fila nell’orchestra, un posto che, secondo il suo modus vivendi degli ultimi anni non era poi dissimile a quello che aveva cercato nella vita d’altronde. Oltre tutto il violoncello era lo strumento che si era messo a studiare da adulto.
Immaginava che quelle curve fosse altre.
Non c’era giorno che sparava battutacce a tutti, massacrando in primis regista ed attori, Antonelli esclusa; ogni mattina, poi, leggeva il giornale a voce alta e commentava. Alla fine nessuno più se lo filava.
Gli altri sul set lo vedevano aggirarsi un pò spento ed emaciato dai grappini, sambuche e Aperol che trangugiava al mattino presto con fare sistematico quasi fossero medicine; parlava spesso da solo sottovoce e scuoteva la testa. Accostandosi un pò a lui, che più neanche si accorgeva di te, lo si poteva udir dire sempre la stessa frase:"Gran culo, gran culo..."

Ernesto De Pascale

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