. Born to Run - Bruce Springsteen

Ernesto de Pascale saluta i 30 anni di “Born to Run” di Bruce Springsteen




Gli anni settanta furono, in Italia, per la musica rock un periodo davvero d’oro. Nel Bel Paese esplose “l’importazione” di dischi. Ma se non avevi amici in America, se non conoscevi qualcuno negli scali aerei o se non avevi un socio dall’altra parte dell’oceano, era davvero difficile entrare a far parte di questa ristretta élite d’importatori.

Salvo che tu non frequentassi i parcheggi degli aeroporti di Pisa, Napoli Capodichino, o la zona di Aviano.

Erano tempi mitici, si direbbe oggi, per il commercio: per qualche motivo sconosciuto ai molti, in quella decade, poteva ancora accadere che qualche migliaio di copie di un disco appena pubblicato potessero sfuggire di mano ai controllori dei solerti magazzinieri delle warehouse che tutte le case discografiche avevano dislocate intorno ai docks del New Jersey e si imbarcassero, senza permesso, sui carghi aerei, destinazione: le varie sedi delle basi militari in Europa, aree di libero commercio non soggette a strategie discografiche e, ufficialmente, tax free.

Fu così che un centinaio di copie, fresche di stampa, del più importante album di rock & roll di quella decade atterrarono, senza troppi traumi all’aeroporto di Pisa, per un errore di schede traforate, quelle che – in era pre-computer – comunicavano i vari shipment in questa o quella parte del mondo.

I dischi, insieme con altri generi di consumo, costituivano il contributo alla vita ricreativa delle annoiate forze armate di leva, in ferma presso il centro d’addestramento e controllo strategico dislocato in Toscana. Molti di questi giovani non avevano motivi particolari per amare una musica piuttosto che un’altra: il rhythm & blues e il country & western restano i generi preferiti. Quello che a gran parte di loro interessava, ed ancora oggi interessa, era divertirsi. Per ingannare il tempo.

Ecco che, per raggranellare qualche centinaio di mila lire in più da dividersi e spendere al pub, le truppe addette al ritiro delle merci svendevano direttamente dalle camionette interi pacchi di certi fra i più ricercati generi d’intrattenimento, dischi long playing compresi, appena fuori dell’aeroporto, a quanti fossero a conoscenza dell’opportunità.

Il 30 Agosto 1975, ragazzo di bottega in un negozio di dischi d’importazione di Viareggio, mi ritiro, compiuto il misfatto, in religioso silenzio nella mia mansarda di Via Vittorio Emanuele, Firenze, e – grazie alle caratteristiche sopra descritte - ben 36 ore prima del suo worlwide official release, orgoglioso abbasso gloriosamente il braccio sulla mia copia americana di “Born To Run” di Bruce Springsteen, il disco che cambierà, ancora un altro pò, ancor di più, la mia generazione, l’album che dipingerà il “futuro del rock & roll”.

Fino a quel giorno in Italia, Bruce è un emerito sconosciuto. Una sola persona ne ha parlato: è la giornalista Maria Laura Giulietti su Ciao 2001 e sarà lei l’unica inviata italiana a Londra all’Hammersmith Odeon, il 18 Novembre 1975, l’unica a testimoniare la potenza indescrivibile di un artista che in soli due mesi e mezzo aveva già messo a soqquadro il decadente impero del rock d’oltreoceano.

Nell’America del dopo “American Graffiti” (George Lucas, 1973), di “Happy Days” (un successone nel 1975), delle truppe che lasciano Saigon, del Watergate, dei tagli sul petrolio, delle domeniche in bicicletta, Bruce di Asbury Park inizia il suo album più importante – quello del “do it or die “ – con parole che paiono le indicazioni di una messa in scena di Tennesse Williams, “The screen door slams / Mary’s dress waves“.
Mesi di perfezionamento, di paure, di angosce dell’artista e della sua band, la E Street Band, si condensano ed esplodono nella novellistica grandiosità anni settanta di quei giorni di studio e del suo risultato finale, portandosi appresso l’insegnamento del produttore Phil Spector e delle sue mini opere a quarantacinque giri, quelle su cui Springsteen aveva così a lungo sognato nel silenzio della sua cameretta.

Alla pubblicazione del disco, Greil Marcus scrisse che il mondo della musica si trovava davanti a una “straordinaria autorevole drammaticità”, Lester Bangs aggiunse, più semplicemente che l’album svolgeva in pieno il compito di “ricordare a tutti noi cosa vuol dire amare il rock & roll nel momento in cui per la prima volta si ascolta”.

“Born to run" insieme a “Late For The Sky“ di Jackson Browne, ha costituito il mio solido muro del pianto, “il giorno di dolore che uno ha”, ha svolto funzione di confessionale. Come musicista ho deciso molti anni fa che non suonerò mai le canzoni di questi dischi, siano pur esse, per me, degli assoluti capolavori.
Nei confronti di questo disco, e di pochi altri album, porto rispetto e tendo a suonarli per radio raramente, se non in casi ed eventi importanti, quasi che essi con la loro presenza possano oscurare il resto.

Porterò però “Born to Run“ per sempre nel mio cuore, perché quel maledetto decennio fu ancora, in fin dei conti, un periodo d’innocenza – ascoltando il disco di Bruce è palese! – in cui ci si riconosceva ancora, con una certa facilità che oggi non c’è più.


La risonanza che Springsteen creò nel 1975 avrebbe assunto un ruolo ancora più profondo negli anni a venire e sarebbe stata fonte di un nuovo romanticismo on the road. Ancora adesso, in occasione della special edition per il 30esimo anniversario di “Born To Run“, Bruce non ha esitato a definire il disco “il diario di un uomo alla ricerca di qualcosa e che ancora sta cercando”.
Quest’idea di far parte della domanda e non della risposta del disco, del suo autore e interprete, è la chiave di volta dell’opera.

Il disco, senza attendere alcun segnale promozionale, mise in moto un vero e proprio stream of conscius, facendo nascere una vera e propria generazione di ascoltatori “pensanti”.

Il Rock & Roll era cresciuto e noi con lui. Per ascoltare il prossimo, gran richiamo generazionale, avremmo dovuto attendere Patti Smith con “Horses”, i Clash con “London Calling”.

Ma avrebbe risposto un’altra generazione, non più la mia.

Quella avrebbe continuato a tenersi stretto la sua copia originale americana di “Born To Run”, per attendere il giorno della celebrazione, e di nuovo accompagnare gloriosamente il braccio del giradischi sui solchi di un disco che vale una vita intera.

Ernesto de Pascale
Firenze, 18.11/2005




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