www.anthonyphillips.co.ukdi Francesco Gazzara
Anthony Edwin Phillips, nato del 1951 a Putney, Londra, è colui che alla celebre Charterhouse School formò il primo gruppo con Mike Rutherford, gli Anon, che poi confluì nei Garden Wall di Tony Banks e Peter Gabriel. È anche il chitarrista elettrico e acustico dei primi due album dei Genesis, “From Genesis To Revelation” (1969) e “Trespass” (1970). Il suo fraseggio rock permise alla celebre band inglese una rapida evoluzione – a cavallo tra i due dischi citati – da ennesimi cloni di un pop beatlesiano bagnato in acqua santa a punta di diamante del progressive rock. A conferma di ciò basti ascoltate l’assolo di chitarra elettrica su “The Knife”, la traccia che chiudeva Trespass e tanti concerti del gruppo all’epoca apparentemente capitanato da Peter Gabriel e Tony Banks: la visione determinata di Ant – così lo chiamano da sempre i suoi estimatori, amici e compagni di band – e la sua qualità compositiva ne facevano il vero nucleo creativo dei Genesis. Non solo, la sua tecnica innovativa sull’uso della chitarra a 12 corde – tramandata poi allo stesso futuro sostituto nella band, Steve Hackett – rese il sound del gruppo ancora più misterioso ed evocativo. In questo caso vale la pena ricordare che “The Musical Box”, la celebre canzone che apriva “Nursery Cryme” – il primo album dei Genesis senza Phillips -, era stata provata e suonata a lungo dal gruppo quando Anthony era ancora presente. Buona parte del brano si deve proprio a una sua intuizione, all’intreccio iniziale delle chitarre a 12 corde tutte con le ultime tre corde più basse accordate sulla stessa nota, il Fa diesis che domina in lungo e in largo l’intera canzone. Ecco perché, quando Phillips rinunciò a continuare a far parte del gruppo subito dopo la pubblicazione di “Trespass”, la band che di lì a pochi anni avrebbe conquistato il Belgio, l’Italia e infine il Regno Unito, gli USA e il mondo intero, si trovò a un passo dallo scioglimento. Anthony lasciò per l’impossibilità di proseguire nei concerti, dovuta anche a un precario stato fisico, ma si mise presto a studiare musica più seriamente e, intrattenendo sempre un solido legame con i suoi ex compagni di gruppo – soprattutto Mike Rutherford -, si buttò a capofitto in una nuova stagione discografica iniziata nel 1977 con l’album capolavoro “The Geese And The Ghost” (con la partecipazione dello stesso Rutherford e di Phil Collins). Da allora i dischi solisti di Ant hanno superato quota 30, tra album pop molto raffinati, una lunga serie di “Private Parts And Pieces” (che entro la fine del 2012 arriveranno al n.12) dedicate al suo magico mondo strumentale fatto di chitarre acustiche a 12 corde, bouzouki orientali, salteri messicani, charanghi sudamericani e pianoforti verticali inglesi dal sound antico e dal sapore bucolico. Un vero slow food per le orecchie di chiunque ancora consideri “Trespass” uno dei più bei dischi della storia del rock. Parallemente a tutto ciò Ant vanta anche un ottimo credito di popolarità tra gli addetti al settore della musica televisiva – dai documentari alle serie TV celebri come “Survival”, passando anche per il musical con le musiche per l’allestimento teatrale di “Alice” con Richard Scott-, avendo realizzato numerosi dischi di library music, in cui ha dimostrato doti eccelse anche come compositore di temi applicati alle immagini. Il lato umano di Mr. Phillips, assolutamente non secondario a quello artistico, rivela una vitalità che non ti aspetti da chi, per molti anni, è stato considerato come un “esiliato del rock”. D’accordo, i suoi dischi non hanno mai scalato le classifiche, e lui stesso non si è esibito quasi mai dal vivo, ma l’energia briosa e volitiva di Ant traspare subito, sia nella sua profilica carriera artistica, che in una conversazione telefonica come quella che state per leggere. Per le numerose sfumature del suo carattere, gli aneddoti più completi e una discografia analizzata col massimo dettaglio, vi rimando alle oltre 300 pagine del volume “Anthony Phillips: The Exile” a cura di Mario Giammetti (Edizioni Segno). Qui invece ci concentriamo sul suo nuovo doppio album, “Seventh Heaven”, che esce a maggio per la Voiceprint Records a tre anni distanza dal precedente “Pathways & Promenades” ed è stato realizzato da Ant in coppia con Andrew Skeet, orchestratore e arrangiatore dei Divine Comedy di Neil Hannon nonchè collaboratore di George Michael, Suede e Sinead O’Connor. All’album partecipa anche la soprano operistica Lucy Crowe (nel brano “Credo In Cantus”) e nella tracklist dei 2 CD (35 brani in tutto) sono presenti atmosfere acustiche tipiche dei precedenti lavori chitarristici di Phillips (“Under The Infinite Sky”), momenti esotici (“Desert Passage”) e qualche approccio jazzistico con originalità (“Ghosts Of New York”). Su tutto svetta il tocco orchestrale, soprattutto negli archi, di Andrew Skeet, anche lui dotato di un tocco personale collaudato con anni di lavoro sulla musica televisiva (“The Apprentice”, “Dispatched”, “Banged Up Abroad”). Ciliegina sulla torta, il recentissimo utilizzo del brano “Sojourn” (anche se in versione “library” leggermente diversa da quella inclusa nell’album) nella campagna pubblicitaria della Mitsubishi (ASX Crossover), che in qualche modo incorona anche nel nostro paese l’ex Genesis come esperto autore di musica per immagini. Ma sentiamo cosa ci racconta Anthony Phillips nell’intervista che segue, dedicata in gran parte proprio a “Seventh Heaven”.
FG – Come è stato lavorare con un’intera orchestra? Se non sbaglio era dai tempi di “Tarka” (1988, con Harry Williamson) che non realizzavi un intero disco orchestrale.
AP – Io e Andrew siamo stati molto fortunati con i musicisti, abbiamo avuto a disposizione i migliori orchestrali sulla piazza londinese. L’orchestra è stata registrata agli Abbey Road Studios ma in particolare gli archi di “Credo In Cantus” li abbiamo incisi negli Angel Studios a Islington: stare lì e ad ascoltare un’intera sezione di archi che suona un tuo brano è una gioia assoluta per le orecchie.
FG – C’è una sorta di concept nelle due scalette del doppio album? Ho visto che alcuni brani tornano sotto forma di “reprises”…
AP – Direi di no, in effetti abbiamo raccolto a tavolino tutto il materiale che ci sembrava migliore in tre fasi diverse. Una parte proviene da lavori per film e TV e abbiamo selezionato solo le cose che funzionavano anche senza le immagini che commentavano. Un’altra parte consiste in mie composizioni alla chitarra orchestrate con gli archi da Andrew Skeet, come la stessa “Credo In Cantus”. Infine abbiamo rimesso mano ad altre produzioni musicali televisive che avevamo lasciato temporaneamente. Quindi si tratta di un lavoro di collage, cercando un movimento fluido nello scorrere delle tracce, a sua volta interrotto delle numerose riprese dei temi che hai notato. Insomma la scaletta finale è stata compito arduo. Per me lo è sempre, quando finisco un disco tendo a estraniarmi e lascio agli altri la tracklist. Andrew ha fatto un gran lavoro anche in questo senso, partendo dal primo ordine dei brani fatto da Jonathan Dunn, che in realtà si occupa del mio sito web.
FG – Alcune tracce come “Under The Infinite Sky”, grazie all’uso delle chitarre acustiche, mi ricordano il tuo recente album “Field Day”. Non te le aspetti in una scaletta fatta in prevalenza da brani con l’orchestra. Che sound avevi in mente quando hai iniziato a scrivere i brani di “Seventh Heaven”?
AP – All’inizio è partito tutto come un progetto di library music. Anzi, come un sogno, perché dalla produzione mi hanno detto: “scrivi quello che vuoi, puoi utilizzare un’orchestra e se vuoi anche le chitarre acustiche, copri tutte le aree, scrivi una musica molto descrittiva”. Poi mi hanno fatto ascoltare un paio di esempi di altri compositori, solo per definire il mood, e così ho deciso di prendere le cose migliori che avevo in un panorama compositivo molto largo. Anche nel suono ho scelto dei brani miei che nascevano con la sola chitarra acustica o che, al contrario, erano realizzati con degli archi campionati. Ad ogni modo ho avuto massima libertà, anche dal punto di vista comunicativo, ho scelto cose da un lato eroiche e romantiche, altre cose più tranquille o nostalgiche. Dal punto di vista drammatico non mi sono fatto mancare nulla, soprattutto con quel che di attuale succede in Medio Oriente anche i brani etnici più validi che avevo nel cassetto si sono rivelati adatti al momento. Più in particolare c’è anche la colonna sonora del film “Babel” come influenza nel mood di “Seventh Heaven”. Nulla di copiato ovviamente, ma mi piaceva l’idea di avere una sezione del disco assolutamente priva di abbellimenti orchestrali. Un po’ come all’inizio del film nella scena dell’autobus la musica è protagonista senza effetti sonori, solo con un’incisione della chitarra acustica molto ravvicinata. Per ottenere quel tipo di suono ho lavorato duro, ho anche speso un bel po’ di soldi per un preamplificatore Prism al fine di ottenere il miglior suono di chitarra possibile. Così il brano “Under The Infinite Sky” stava per essere incluso solo nella sua versione acustica – quella che invece è chiamata ‘reprise’ nel CD 2, nda -, una volta che la chitarra a 12 corde suonava così bene richiamando sia qualcosa da “The Geese And The Ghost” e dall’era Genesis in generale che quella specie di miraggio sonoro proveniente da un’altra soundtrack che mi piace molto, quella per il film “The Motorcycle Diaries” (“Diari Di Una Motocicletta”, nda). Invece poi è stato Andrew a suggerire un arrangiamento con gli archi, che è piaciuto a tutti, e così abbiamo ottenuto due versioni dello stesso brano sui due CD che compongono il nuovo album.
FG – Tra le due versioni ovviamente la prima fa subito pensare a una colonna sonora…
AP – In effetti è molto più drammatica. Una delle qualità di Andrew Skeet è la sua capacità di drammatizzare un brano musicale senza mai cadere nel melodramma. E’ una dote molto importante per chi scrive musica per immagini e Andrew sa arrangiare perfettamente e sa quando fermarsi prima che il brano diventi melodrammatico.
FG – Hai citato due colonne sonore dell’argentino Gustavo Santalo alla come tue preferite? Alla luce della tua esperienza come compositore per la TV hai altre preferenze tra le soundtrack più o meno recenti?
AP – Non riesco mai a pronunciare bene il suo cognome, ma Gustavo è uno dei migliori per me. E’ strano, alla fine ci piacciono gli autori che in qualche modo scrivono una musica che è già sintonizzata sulla nostra lunghezza d’onda. La sua musica non è lontanissima dalla mia. Adoro “Babel” e “The Motorcycle Diaries”, mi piace anche la sua soundtrack per “Brokeback Mountain”, con cui vinse un Oscar prima di quella per “Babel”. Però la trovo più convenzionale delle altre due, non mi accende dentro. Per il resto mi piace qualsiasi lavoro di Ennio Morricone. Molte cose di John Williams, il suo tema per “Schindler’s List” è una lama tagliente sul cuore di ogni persona che lo ascolta. Tra i compositori per il cinema inglesi mi piace il George Fenton di “Shadowlands” (Viaggio In Inghilterra, nda), lo trovo molto eclettico, è passato da “Ghandi” a una pellicola in costume come “Dangerous Liasons” (Le Relazioni Pericolose, nda). Tra gli hollywoodiani mi piacciono Danny Elfmann per le sue orchestrazioni molto colorite e anche James Newton Howard, ma in assoluto adoro Thomas Newman. La sua partitura per “The Shawshank Redemption” (“Le Ali Della Libertà”, nda) è una delle più belle pagine di musica per il cinema. Ancora citerei Alexander Desplat, che è il nome del momento, senza dimenticare gente come Clint Mansell e John Murphy. Sono tutti autori incredibili, hanno decretato uno standard molto alto. Ogni volta che torno a casa dopo aver visto un film con la loro musica penso che la prossima volta dovrò lavorare più sodo !
FG – Hai una formula particolare che segui quando lavori con un regista?
AP – No, anche perché non scrivo musica su commissione per un film montato ormai da molto tempo. In effetti in passato ho intravisto le difficoltà e le insidie che posso esserci nel rapporto tra compositore e regista, ma poi mi sono sempre trovato a incidere musica che veniva utilizzata solo in un secondo momento per le immagini.
FG – Immagino che durante gli anni molte interviste hanno riguardato il tuo passato con i Genesis…
AP – Puoi giurarci, ma non ho mai messo un limite preventivo a quel genere di domande. Certo, se l’intera intervista, come è capitato più volte, verte solo su quello e non si parla affatto della mia carriera solista allora qualche problema c’è. Dipende poi da chi è l’intervistatore: se si tratta anche di un fan, allora tutto è concesso, anche perché in quel caso già conosce molte cose sia sui Genesis che sui miei dischi, quindi siamo avvantaggiati!
FG – Allora finiamo in bellezza proprio con qualcosa relativa agli altri Genesis o ex Genesis. Che ne pensi degli altri recenti dischi orchestrali di Tony Banks e Peter Gabriel, ovviamente già molto diversi tra loro, e anche del lavoro fatto in passato con piccoli ensemble di archi da parte di Steve Hackett, con cui hai pure collaborato in studio nel suo ultimo album?
AP – Ti confesso che questa può essere una domanda molto imbarazzante per me. Soprattutto perchè, onestamente, io non ho ancora ascoltato nulla di questi album! So che Peter ha realizzato un album orchestrale di cover altrui (“Scratch My Back”, nda) seguito da un altro con le sue vecchie canzoni riarrangiate con gli archi (“New Blood”, nda), ma con tutta onestà ti rivelo che devo ancora ascoltarli, così come quelli di Tony Banks (“Seven” e “SIX Pieces For Orchestra, nda). Per quanto riguarda Steve Hackett, conosco bene il suo ultimo album ma ignoro il lavoro orchestrale da lui fatto in precedenza. Mi dispiace davvero non poter rispondere a questa domanda! Però forse ti posso dire, come consolazione, che secondo me neanche gli altri Genesis ascolteranno il mio disco orchestrale (risate, nda). Non so qual è il motivo per cui tra gli ex Genesis nessuno ascolta gli album degli altri, di sicuro non è disinteresse, forse timore che gli altri siano più bravi (altre risate, nda)? Non credo che Steve ascolti i miei lavori, dubito che Peter lo faccia, sono sicuro che Tony non lo fa.
FG – Tornando indietro ai ricordi di “Trespass” e degli anni precedenti, c’è qualcosa in quei giorni che poteva far pensare a un numero così cospicuo di album solisti con l’uso dell’orchestra poco più di quarant’anni dopo?
AP – Beh in fondo se già pensiamo alle lunghe tracce epiche composte in quel periodo, anche insieme a me, come “Looking For Someone” e “Trespass”, le possiamo definire come materiale incredibilmente quasi orchestrale. Musica che non aveva una sequenza strofa e ritornello ma una serie di sezioni interne, accordi complicati e progressioni in crescendo: ciò significa scrivere in maniera quasi orchestrale e poi eseguire con strumenti non orchestrali. Non trovi che scoprire quel lato orchestrale della band già in quei giorni renda meno sorprendente oggi l’uscita di questi dischi solisti?
FG – Sicuramente, anche se poi è il modo in cui tutto ciò fu miscelato al rock che fece la differenza nel caso dei Genesis.
AP – La grande sfida è stata indubbiamente nel combinare le due cose. Non si tratta di miscelare le chitarre acustiche e il piano con gli archi, come avviene in “Seventh Heaven”. Nel caso dei Genesis la scommessa era di abbinare gli strumenti tipici del rock tra cui batteria, basso e chitarre elettriche, a ciò che veniva percepito come sinfonico. Spesso è un trabocchetto in cui cadono molti. E’ difficile essere omogenei. Io ci provai con “The Geese And The Ghost”, dove le chitarre a 12 corde accompagnavano qualche strumento che proveniva dalla tradizione classica, come l’oboe, il flauto. Non so se ci sono riuscito a essere omogeneo, ma il tentativo c’era anche se non si era davanti a un’intera orchestra. Insomma la chiave è di interagire fin dall’inizio tra i due mondi, tra strumenti rock e strumenti orchestrali, senza imporre i secondi dopo aver registrato i primi o viceversa. In fondo è un mio sogno, quello di registrare un disco come “Seventh Heaven” ma portandoci dentro anche gli strumenti di una rock band. E’ una cosa che vorrei fare presto, anzi ti dico che mi ci metterò a lavorare da subito!