il popolodelblues

Recensioni

Festival Blues Rules, Crissier (Ch)

1 ottobre 2012 by Luca Lupoli in Concerti

Crissier (Canton Vaud-Svizzera)
26 e 27 maggio 2012

Terza edizione di Blues Rules, piccolo festival alternativo-rurale con pretese per un futuro radioso.  La formula è certamente disobbediente ad un certo modo, incolonnato e falsamente festivo, di proporre la musica live.   Da Montreux al Paléo festival di Nyon, si respira un’atmosfera ormai omologata, tra gli artisti come tra gli spettatori.  Tra i primi, c’è una vasta maggioranza di nomi nuovi ma mainstream e di ribolliti che hanno come Paperon dei Paperoni il segno del dollaro sul bulbo oculare, tra i secondi – gli spettatori – prevale il sentimento che bastano una tenda e uno spinello per sentirsi un po’ “alteromondialisti”.   Blues Rules vive e sopravvive su altri presupposti: quello principale è che si possa comunque fare un festival di Blues senza chiamare Buddy Guy e B.B. King, pur rientrando nelle spese. Il secondo è di proporre artisti nuovi, o altrimenti simbolici come il Rev. John Wilkins – il biker-preacher dell’imperdibile You can’t hurry God che aggiungano se non qualità almeno novità.  Wilkins ha fatto brillare alta la fiamma del Gospel Blues, con un accompagnamento minimalista quanto efficace nel quale s’è distinto il chitarrista Jake Fussell.  Da antologia You got to move.  C’è anche della didattica come le lezioni di Adam Gussow – la metà di Satan e Adam – della quale ci piace ricordare una travolgente versione di Sunshine of your love all’armonica in un set solitario eppur intenso.   Rising Star Fife and the Drum Band, guidate da Sharde Turner, nipote del compianto Otha Turner, hanno rinforzato il vento del Mississippi che spirava tra le colline del Canton Vaud, a uno sputo da Losanna.  Roots-Blues, alla radici più profonde della musica nera, quella delle strade polverose degli stati agricoli del Sud degli Stati Uniti, oggi abbandonati a se stessi, dove la musica significa autentico amore, in un programma quasi francescano di povertà.

Ma la buona – vera – musica non è finita qui: Keith B. Brown, un filino nervoso forse per l’ora tarda, inanella una bella canzone dopo l’altra da  folk-singer di razza, brillando nelle dodici battute alla Son House con “Death Letter”.  I Mountain Men – duo chitarra armonica – hanno forse nella gigioneria il loro peggior difetto ma hanno divertito e convinto il numeroso – per queste lande – pubblico ben intabarrato nel fresco della sera. Poi ci sono le sorpresa, due artisti che escono dal nulla  dell’anonimato musicale: il primo, tale L.R. Phoenix, un suddito della Regina che vive beato in Finlandia, e ciò nonostante suona Blues come Dio comanda, senza deviazioni e impurità, a tutta birra anzi a tutto whisky.  Gli viene rimproverato un atteggiamento declamatorio un po’ guascone, ma averne di gente così, che brucia il manico e che dà fuoco al microfono.  Il secondo è Possessed by Paul James – che colui che Vi scrive ha chiamato per tre giorni James Patterson – un professore (vero nome Konrad Wert) di violino e banjo che non disdegna i palchi quali essi siano, e che nel suo folk blues assolutamente genuino, è sembrato musicista di talento e valore.

I Foghorn Stringband hanno fatto dell’ottima Old Time Music, un aperitivo analcolico per un bevitore serio.  Bluesbeaten Redshaw è sembrato un ragazzotto – avrà diciasette anni – di belle speranze che deve ancora maturare.  Fred Chapellier e Neal Black hanno fornito un set di classico rock’n’blues bello corposo, senza sorprese, con una bollente versione di As the years go passing by.  Poi viene il battaglione di quelli, che per ragioni diverse, hanno convinto meno.  Temo sentiremo ancora parlare di Molly Gene One Whoaman, una signorina un po’ stravagante che fa casino con la chitarra, né blues, né rock tantomeno folk. I I finlandesi Ataturk, gli svizzeri Tong Tied Twin e Honshu Wolves fanno del trash-blues molto trash e molto poco blues, ma nella categoria Punk-scoppiato potrebbero avere un futuro. Sarà colpa mia ma ancora non apprezzo pienamente i miei conterranei Mama Rosin, qua presenti in una versione alternativa come Frêres Souchet, i quali se non altro ribollono pieni d’idee.

Luca Lupoli

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