(Island) www.mumfordandsons.com
Quella dei Mumford & Sons è una classica storia di vertiginosa ascesa. Nel 2008 questi quattro ragazzi londinesi, allora poco più che ventenni, pubblicavano i loro primi extended plays; l’anno successivo, e siamo al 2009, esce il loro disco d’esordio, direttamente con una grande major: la Island Records. “Sigh No More”, questo il titolo, è un disco completamente diverso dagli standard del folk britannico, quello di Nick Drake o dei Traffic per intendersi; le canzoni dei Mumford sembrano piuttosto un matrimonio ben riuscito tra la musica popolare irlandese (e i suoi moderni cantori, come i Pogues) e qualche polveroso gruppo dixie statunitense, con banjo, contrabbasso e galline che starnazzano nell’aia. Ma non è finita, Sigh No More è un successo clamoroso, sbanca contemporaneamente in tutto il commonwealth britannico e negli Stati Uniti. Il battage pubblicitario è enorme: per due anni i Mumford girano il mondo e nel 2011 sono sul palco dei Grammy ad accompagnare sua maestà Bob Dylan mentre esegue Maggie’s Farm. Giusto per non farsi mancare niente, lo scorso aprile Marcus Mumford, il padre della band – gli altri tre, con cognomi diversi, presumiamo che siano i figli – convola a nozze con Carey Mulligan, il volto triste ed emergente del cinema impegnato.
Oggi, autunno 2012, esce Babel, il secondo attesissimo disco di questo gruppo che si è preso il mondo e che ancora, scusate, non riesce a convincermi del tutto. I Mumford & Sons sono bravi, su questo non ci piove, sono fortunati, sono “pop” nel senso più generale del termine, suonano magnificamente in radio, puliti e senza sbavature, da quanto si dice ci sanno pure fare dal vivo. Ma non sembrano completamente “sinceri”, sembrano un prodotto studiato abilmente da casa discografica e produttore, fatti apposta per sfondare le classifiche, non hanno identità, perché si rifanno a tutto quello che di orecchiabile è possibile prendere dai bar irlandesi e dai festival country dell’Alabama.
Non hanno, e se ce l’hanno è ben nascosta, un’anima. In Babel le canzoni si assomigliano tutte, tutte, senza esclusioni. E tutte assomigliano a “Little Lion Man”, che purtroppo, tre anni fa, era il singolo di “Sigh No More”. Diciamoci la verità, un sottofondo onnipresente d banjo sarebbe orecchiabile anche sotto il jingle del Pulcino Pio, è il banjo bellezza, e i Mumford l’hanno capito fin troppo bene. Le buone canzoni ci sono, certo, “Holland Road” per esempio, “Broken Crown” anche, ma sono già simili tra loro, inutile dire quanto lo siano alle altre. Non una sola ballata, non una sperimentazione: Shane MacGowan avrà pure avuto i denti cariati dal whiskey, e non sarà stato un fighetto londinese vestito da bifolco statunitense, ma se non altro sapeva commuovere. Poi, se proprio volete scomodare i santi, ascoltatevi l’immancabile versione deluxe, dove figura la cover di “The Boxer”, quella di Simon & Garfunkel, una bella cover, con un indovinatissimo assolo di steel guitar, la migliore canzone del disco, appunto.
Matteo Vannacci
Tracklist: Babel Whispers in the Dark I Will Wait Holland Road Ghosts That We Knew Lover of the Light Lovers’ Eyes Remind Hopeless Wan Broken Crown Below my Feet Not with Haste
Deluxe Edition For Those Below The Boxer Where Are You Now