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La cantautrice inglese Beth Orton torna con un nuovo album, primo per l’etichetta Anti, a sei anni di distanza dal precedente Comfort of Strangers.
Riposta ormai da parte la passione per la contaminazione con l’elettronica, caratteristica di alcuni dei lavori dei primi anni della sua carriera, Beth regala un album dalla grande profondità emotiva e maturità stilistica.
La produzione è affidata a Tucker Martine, marito e produttore di Laura Veirs, già noto per i suoi lavori con My Morning Jacket, The Decemberists, Sufjan Stevens.
La collaborazione, nata dalla passione di Beth per alcune delle più recenti produzioni di Tucker, è senza dubbio fruttuosa. L’ album, registrato Portland (Oregon), spicca infatti proprio per la delicatezza e il gusto degli arrangiamenti.
Abbondano gli archi, utilizzati senza mai strafare per arricchire le trame delle nuove, dieci canzoni che compongono questo disco, belle a partire proprio dalla scrittura, che sembra diventare con il tempo sempre più intensa e interessante.
L’apertura è segnata da Magpie, folk pop acustico e avvincente, capace di ipnotizzare attraverso i giochi ritmici di parole ripetute, seguito da Dawn Chorus. Colpiscono la successiva Candles e le trame quasi orchestrali della incisiva Something More Beautiful.
Call me the breeze è un momento più leggero a metà scaletta, dal testo semplice e dall’andamento musicale che attinge un po’ al blues.
See Through Blue è un valzer aggraziato che si differenzia dal resto del disco, mentre Poison Tree basa il suo testo su una poesia di William Blake.
Last Leaves of Autumn è un brano più soffuso e minimale, mentre Mystery chiude il lavoro con una malinconica linea di violoncello che incornicia un brano che potrebbe essere tranquillamente tratto da un disco di Pentangle o Fairport Convention.
Il cuore dell’intero disco è stato registrato in presa diretta, con i musicisti che hanno imparato i brani in studio e li hanno completati nel giro di appena qualche giorno. Un approccio musicale capace di catturare l’energia del momento e assolutamente non nuovo per Beth Orton.
Prendono parte all’album Rob Burger alle tastiere, Sebastian Steinberg al basso, Brian Blade alla batteria. Alle chitarre Ted Barnes, Sam Amidon e un ospite di prestigio come Marc Ribot.
È sicuramente un bel percorso artistico quello di Beth Orton, che la porta con questo suo sesto album non solo a confermare il fascino della sua abilità di musicista e cantautrice ma anche a raggiungere l’autorevolezza di una folksinger più adulta e intrigante, memore della lezione degli artisti che l’hanno preceduta.
Giulia Nuti