The night in which the Blues was attacked in Mali
È inusuale che il Blues incroci la politica internazionale, però i recenti problemi in Mali, patria di quello che è stato variamente definito come “Blues africano” o “la culla del Blues” facendo riferimento alle origini geografico-antropologiche del Blues, danno spunto a una serie di riflessioni tra musica, libertà d’espressione e, appunto, politica internazionale. Pochi in Italia, nell’ennesimo thrilling elettorale, hanno fatto caso alla situazione maliana. Come succede in altri paesi, gruppi estremisti a vocazione religiosa si sforzano di prendere il potere, talvolta detenuto da governi poco rappresentativi se non largamente illegittimi. Come lo scopo di quest’articolo è di parlare comunque di musica, non mi dilungherò sui vari scenari che possono esser analizzati da ciascuno secondo interesse e bisogni. Il Mali, patria di numerosi siti definiti dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità – come il Colosseo o metà della Firenze rinascimentale – è anche patria di quello che fu riconosciuto come il bluesman africano per eccellenza: Ali Farka Touré (nella foto) – il John Lee Hooker del deserto e via sragionando. Malgrado l’ambiguità e l’imprecisione delle definizioni, l’ipotesi che Farka Touré resti uno tra i musicisti più rappresentativi dell’Africa, come lo fu Fela Kuti Ransome – è largamente condivisibile. Si parla dunque di musicisti che hanno lasciato un segno anche sociale nel loro paese. Farka non è solamente rappresentativo ma anche “groundbreaking”, il suo “Talking Timbouctu” del 1994 con Ry Cooder rimane una pietra miliare nei rapporti, fraterni e fraticidi, tra musica africana e musica americana in genere. Incise altri dischi significativi, e poco capiti, al momento della loro uscita con Taj Mahal e Corey Harris. Era apparso anche in “Feel like goin’ home”, documentario di Martin Scorsese, che narrava appunto delle relazioni tra Africa e Blues. Ma veniamo alla nostra storia. Farka Touré nel 2004, già musicista affermato in patria come all’estero, diventa sindaco del villaggio dov’è cresciuto – Niafunke – nel distretto di Timbouctu. Di tasca sua fa fare qualche lavoro di utilità pubblica, prima di morire prematuramente nel 2006. Facciamo un salto di sei anni: da esempio di democrazia africana, il Mali si va lentamente trasformando in un paese dove il banditismo, spesso mascherato sotto un’immagine cultural religiosa, la fa da padrone. Salta anche il governo rimpiazzato da una giunta militare, il che non impedisce alle milizie islamiche di proseguire nella lenta ma sistematica occupazione del paese.
Una notte bussano alle porte di Niafunke e instaurano le loro regole: donne e bambine coperte fino ai piedi, giovani vestiti solo in modo tradizionale, sigarette proibite, di alcol è meglio non parlare. Dunque birrette vietate, frustate a chi viola le regole, mani amputate per chi ruba. E inevitabilmente gli islamici proibiscono anche la musica senza sapere, perché l’estremismo si mischia spesso all’ignoranza, che Niafunke è la città di Ali Farka Touré, il Bluesman maliano. Cala il silenzio, tacciono le radio, confiscate e distrutte, volano in pezzi i lettori CD, usati per il tiro a segno col AK-47, unico canale televisivo permesso è quello della lettura dei testi sacri. Musicisti e artisti di tutti i generi abbandonano in fretta e furia il Nord del paese, tra minacce di amputazioni e morte certa, migrando dolorosamente verso Bamako. Loro, più di altri, sentono la responsabilità di rappresentare un paese che ha dato tanto alla cultura mondiale e che vorrebbe continuare a dare. Non si sa se Farka Touré sia stato felice di vedere arrivare le truppe franco-maliane però dopo il loro arrivo il delicato finger-picking di Farka Touré è ritornato in onda, come i ritmi e i canti di quella parte d’Africa e altra musica ancora. Qualche politico nostrano e non, s’era violentemente scagliato contro l’intervento militare, eppure la realtà è che i carri armati, almeno per ora, hanno salvato il Blues africano.
Luca Lupoli
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