Qualche tempo fa, sempre su questo sito, espressi il mio stupore davanti alla dichiarazione di due amici discografici, secondo i quali il rock non andava più. A giudicare dai concerti italiani e internazionali di questa estate, non si direbbe: stadi, arene, parchi, teatri, i risultati sono stati e sono tuttora quasi ovunque eccezionali, con partecipazione entusiasta di pubblico di ogni età. Forse i due amici di cui sopra hanno barato e sarebbe stato meglio per loro ammettere che non è il rock a non funzionare più, ma il disco in se stesso.
Riflettendoci, ricordo che quando ero ragazzo (purtroppo parecchi anni fa) l’acquisto di un vinile per un appassionato era un avvenimento, una goduria pregustata e un autoregalo di grande gratificazione. Seguivano ascolti ripetuti, attenta lettura delle note di copertina e memorizzazione visiva delle foto e della grafica, fino che ci si affezionava all’oggetto, che diventava automaticamente parte di noi stessi e della nostra educazione musicale, qualcosa di personale a cui non si sarebbe rinunciato per niente al mondo.
La prima volta poi che ascoltai un cd rimasi stupefatto dalla pulizia e dalla perfezione della riproduzione e decisi così di comperarmi un lettore e un paio di dischi, scegliendoli fra quelli che già avevo in vinile e che mi piacevano particolarmente, curioso di ascoltarli con la nuova tecnologia. Il primo ascolto fu bellissimo ed apprezzai ancora la grande nitidezza dei suoni; il secondo mi piacque ancora e tuttavia ebbi l’impressione che mi mancasse qualcosa.
Fu al terzo ascolto che individuai quale fosse l’elemento per me indispensabile: il leggero fruscio della puntina, la piccola imperfezione che sembrava desse vita e calore ad una cosa inanimata, regalandole un fascino speciale. Il cd era talmente perfetto da raffreddare le stesse incisioni che sul vinile mi emozionavano. Si trattava di una mia deformazione mentale, condizionata dall’affetto che avevo per i vecchi dischi e per il loro formato importante, dischi che avevo caricato probabilmente di significati che trascendevano la musica in essi contenuta.
Però non posso fare a meno di ritenere che la grande crisi delle case discografiche, certamente dovuta soprattutto all’enorme diffusione del download, sia da imputare anche al fatto che il cd, perfetto, piccolo, maneggevole e comodissimo da usare, non è riuscito a diventare un nuovo oggetto di culto per chi lo acquista. Ci vorrebbe un genio della psicologia comunicazionale che inventi il modo di supplire a questa mancanza, aggiungendo al dischetto e al suo contenitore il quid per renderlo, perché no, più umanamente compatibile, legato a chi lo acquista.
Lo scopo sarebbe quello di far tornare i giovani al piacere di desiderare un album originale e di affezionarcisi, convincendoli ad abbandonare l’idea della compilation fatta di dieci brani scaricati da dieci dischi diversi. Utopie? Lo riconosco: utopie da appassionato nostalgico, magari alla ricerca del tempo perduto. Ma intanto, senza la scintilla che potrebbe dare una mossa al mercato, di dischi se ne vendono sempre meno e l’agonia del cd sembra irreversibile.
Rinaldo Prandoni
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