È uno dei dischi cult del rock anni ’70, specialmente in Italia. L’album, riconoscibile dagli uccelli preistorici in mezzo ai grattacieli in copertina, uscì per la Harvest nel 1970 e prendeva lo stesso nome dalla formazione che lo aveva inciso, i Quatermass. Un trio (voce e basso, tastiere e batteria) che durò per la sola stagione del disco. Oggi Quartemass è stato ristampato dalla Esoteric recordings, etichetta di Oxford specializzata nel recupero di quegli anni grazie al lavoro del manager Mark Powell, con quattro inediti e un Dvd audio supplementare missato con il sistema 5.1 surround. Ne parliamo con Peter Robinson, tastierista dei Quatermass e coprotagonista del recupero dell’album che in Italia è distribuito da Audioglobe.
Come nacque il gruppo?
«Inizialmente suonavo in una formazione chiamata Episode Six con il batterista Mick Underwood e due musicisti che avrebbero poi fatto la loro strada nei Deep Purple, Ian Gillan alla voce e Roger Glover al basso. Quando Gillan e Glover se ne andarono, la manager Gloria Bristow ci presentò John Gustafson, bassista e cantante al tempo stesso. Ci trovammo subito bene insieme e così si formarono i Quatermass».
Tra l’altro Gustafson compare nel primo Jesus Christ Superstar con Gillan come protagonista…
«A Gustafson fu affidata la parte di Simone lo Zelota. Ma ci sono anch’io in quell’incisione dato che suono tutte le tastiere».
Tornando ai Quatermass talvolta avete percepito di essere confrontati con formazioni come Nice e Emerson Lake e Palmer, in cui c’era il predominio delle tastiere?
«In quel periodo molte band legate più o meno al progressive decisero di evidenziare il suono delle tastiere senza un chitarrista di ruolo, come quelle con Keith Emerson, ma anche Soft Machine o i Crazy World di Arthur Brown. Questo portò anche a gruppi con la chitarra a simulare il suono delle tastiere. Non temevo paragoni con altri, piuttosto mi divertivo molto».
Ha parlato di progressive e nel 1969 quando nacquero i Quatermass quello stile stava per espandersi. Vi sentivate parte di quel movimento in quegli anni? Le vostre canzoni hanno anche influenze blues e hard rock che formano un suono riconoscibile rispetto al genere.
«Più che altro grazie alle tastiere e al tipo di formazione davamo vita a un mix tra linguaggio blues, hard rock e quello della musica contemporanea del novecento, prendendo spunto da compositori come Penderecki. Anche la nostra tecnica ha sicuramente contribuito alla formazione della sonorità e quindi dell’originalità dello stile».
Con un album universalmente riconosciuto come ottimo dalla critica, come mai vi scioglieste?
«Purtroppo a quei tempi non ci fu un grande supporto da parte dell’etichetta. Il disco vendette poche copie nel Regno Unito e nonostante un tour negli Stati Uniti ci trovammo in una situazione in cui non potevamo andare avanti con il progetto. Preferimmo tornare a fare i musicisti di studio».
Come è l’album riascoltato oggi?
«Ho avuto una bella sensazione quando era finito il lavoro di masterizzazione per la ristampa e che ho seguito personalmente. Suonava benissimo ieri e suona benissimo ancora oggi».
Michele Manzotti
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