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Recensioni

Green Man Festival, Brecon, Galles, 15-18 agosto 2013

Come ormai è tradizione, il Popolo del Blues è presente all’appuntamento annuale in quel di Brecon – Galles meridionale – con il Green Man Festival. Sia chiara una cosa sin da adesso: il Green Man Festival è cambiato e dopo l’altalenante edizione dell’anno passato, si può serenamente dire che sia cambiato in meglio. Innanzitutto basta vedere il cartellone per capire che si va sempre più consolidando la formula del Festival di quattro giorni e arrivare il 15 agosto nella valle di Brecon ancora preda di ragazzi che stanno sistemando le tende, è una cosa che davvero emoziona nonostante l’ormai consueta partecipazione al Festival. La convinzione che sopra tutte le cose empiriche e concrete, esistano – soprattutto nella musica – dei segnali dalla ignota provenienza ma la cui interpretazione è strettamente legata alla sensibilità di ciascuno di noi ha fatto sì che sin dal primo giorno, dal primo show, fosse ben chiara e percettibile la enorme quantità di good vibes presenti nell’area.

E vedere tante persone, ragazzi, adulti e bambini, gridare e ballare al sempreverde (e valido!) coro di People Have the Power di Patti Smith (l’evento che di fatto ha aperto il Festival) è stata la conferma di ogni possibile positiva sensazione.

Jacco Gardner, venticinquenne polistrumentista olandese, ha rinfrescato l’aria del giorno successivo con la sua acerba e fresca psichedelia dai richiami nobili (Syd Barrett, Left Banke etc) dimostrando quanto la serietà nell’approccio alla composizione ed al live show sia importante e quanto questa faccia la differenza. Da seguire con estrema attenzione. I Moon Duo, nati da una costola dei sempre apprezzati Wooden Shijps, hanno invece riportato la psichedelia dall’altra parte dell’oceano, in una caotica, ossessiva, ipnotica ed elettronicamente acida San Francisco grazie ai loop ed alla voce di Sanae Yamada ed alla chitarra di Ripley Johnson.

Il palco centrale, il magnifico Mountain Stage, ha offerto una delle sue più interessanti performances grazie ad Edwyn Collins, ex Orange Juice. Collins, uno dei più importanti songwriter inglesi degli ultimi anni, nonostante le condizioni di salute, è tornato a scrivere ed a suonare dal vivo forte anche di una delle band più solide tra quelle apparse in questa edizione del Festival. Una band capace di seguire il suo leader con la delicatezza di chi sta camminando in punta di piedi sul ghiaccio così come capace di affondare le mani nella godibilissima tradizione northern soul. Altrettanto solidi sono apparsi i Midlake, direttamente da Denton (Texas), a chiusura della serata del 16 agosto, con un live di tutto rispetto denso di suono e di canzoni sempre in perfetto equilibrio tra la tradizione west coast e le ballads folk inglesi, consolidando la certezza che il loro The Trials of Van Occupanther del 2006 sia stato uno dei migliori album del decennio passato.

Il perfetto fingerpicking di Ryan Francesconi ha invece salutato l’assolato pomeriggio del terzo giorno di Festival, rimandando la memoria a quanti ricordano il Green Man Festival delle prime edizioni, quasi esclusivamente folk. La instancabile e continua ricerca musicale di questo chitarrista proveniente dall’Oregon ha prodotto dei frutti interessantissimi e delle atmosfere che, in un gioco di luci ed ombre in cui fondamentale è stato il ruolo della sua compagna, la violinista Mirabai Peart, ha consentito a noi fortunati spettatori di poter viaggiare tra le foreste inglesi così come tra i paesaggi mediterranei greci, in un infinito ed affascinante caleidoscopio. Ma in quel preciso momento in cui capisci che la sera è ancora lontana ed il sole illumina ancora con forza la vallata di Brecon, in quell’istante dove potrebbero far capolino le prime sensazioni di stanchezza, ecco che, come una secchiata di acqua gelata sul viso, arrivano i Low con il loro pop minimalista, efficace, scarno, essenziale e desertico. Canzoni scarne ma precise come il tiro di un cecchino che va sempre a segno. Implacabili nella loro precisione e nel saper pescare, in una struttura musicale così scarna da sembrare povera, quasi ascetica, tutte le sfumature possibili e necessarie per lasciare il segno in una di quelle esibizioni che saranno sicuramente ricordate nella storia del Festival.

Che dire di John Cale? Come descrivere 30 e passa anni di musica che sfilano sul palco? Cale resta uno degli artisti più interessanti di sempre. Vedere una sua esibizione è come vedere tutto quanto di più alternativo ed interessante la musica abbia mai prodotto dagli anni sessanta ad oggi, tutto mischiato, mescolato e servito direttamente sul muso. Senza tanti complimenti. A dimostrazione di come le idee e le intuizioni musicali, se giuste, possono saltare a piè pari i decenni ed essere proposte sempre con freschezza. A discapito di quanti si illudono che la freschezza delle idee sia direttamente proporzionale all’età anagrafica.

Ma il rock sa essere anche epico, sa smuovere le più intime corde e disegnare davanti ai nostri occhi scenari diversi da quelli a noi presenti. E così è stato con The Band Of Horses, robusta band proveniente da Seattle ma da tempo stabile in North Carolina che ha incendiato il palco del Green Man Festival col sacro fuoco del rock and roll, di quello crudo e puro, di quello che fa bollire il sangue, che ti fa vestire con un chiodo oppure indossare un berretto da redneck. Quel sound vigoroso che negli anni ha vissuto e vestito le pareti delle camere di ogni teen ager che si rispetti e che ancora oggi continua implacabilmente a fare proseliti grazie anche ad una lunga tradizione di artisti nella quale ormai the Band of Horses ha decisamente preso il suo posto.

Due anni fa, nello spazio dedicato alle giovani promesse, ci aveva incantato con la sua voce e le sue canzoni ma, ahimè, quest’anno Ellen and the Escapades ha deluso le aspettative di quanti si attendevano grandi cose. Un’esibizione a tratti opaca, complice sicuramente il fatto di non aver aggiornato in nulla il suo repertorio ( e quindi il suo show) rispetto a due anni fa. Di tutt’altra pasta è invece stato lo show di Melody Prochet e del suo progetto Melody’s Chamber Echo: prodotta da Kevin Parker dei Tame Impala, questa graziosissima cantante ha dato il meglio sfoggiando un freschissimo pop a cavallo tra la psichedelia ed il lounge forte di una band di giovanissimi ma capacissimi strumentisti. Il suo omonimo disco, uscito nel dicembre 2012, è sicuramente una delle cose più belle degli ultimi mesi.

Ed infine ecco qui giunta, anche quest’anno, la sera dell’ultimo giorno del Festival con la sua immancabile atmosfera struggente ed un po’ malinconica: i più previdenti smontano le tende, qualcuno ha l’aria troppo stanca per godersi tutta la musica, qualche altro attende con trepidazione che l’enorme statua in legno e foglie, raffigurante il Green Man, prenda fuoco tra l’esplosione di fuochi d’artificio. Ma per fortuna non c’è stato solo questo: la tenda far out stage ha chiuso l’undicesima edizione del Festival con gli Swans, uno degli show più attesi. Che non fosse il solito show, che non fosse soltanto uno show, lo si è capito sin dall’inizio dall’imponente set di amplificatori e dall’abbraccio che i componenti la band guidata da Michael Gira, si sono scambiati nel backstage prima di salire sul palco.

Sull’onda del loro ottimo The Seer gli Swans hanno dato vita ad una performance che senza dubbio ha fatto la storia del Festival. Le canzoni degli Swans hanno odore di zolfo, di peccato, di sesso così come hanno la potenza salvifica della redenzione. Michael Gira muove le mani nel cielo come se stesse agitando e guidando forze più potenti di lui, come un moderno sciamano il cui suono è così potente da poterti lanciare nel più claustrofobico labirinto dal quale lui stesso saprà farti uscire stordito, ma salvo. E contento. Uno show che nella sua iconografia notturna ha racchiuso tutta la particolarità e la bellezza del Green Man Festival: infatti, mentre noi poverini eravamo in balìa di questo moderno ed elettrico Caronte, era così bello ed allo stesso tempo affascinante vedere come a pochi metri dal nostro tendone ci fossero dei bambini a giocare ed a fare la fila per salire sulla ruota panoramica in un tripudio di venditori di bolle di sapone e zucchero filato in questa ultima notte quando il fuoco ricaccerà il Green Man nei boschi dai quali è apparso e dai quali apparirà ancora una volta l’anno prossimo.

Sono gli aspetti che più piacciono di questo Festival, sono le immagini che con più calore porteremo nel cuore quando l’inverno avrà coperto di freddo le nostre memorie. Ancora una volta, ancora così, leggeremo nelle foto del Green Man Festival quella magia che saprà ripetersi ogni anno in Agosto, nella splendida valle del Glasnusk Estate. www.greenman.net

Giovanni de Liguori

foto (c) Giovanni de Liguori 

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