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La morte di B.B. King è arrivata a qualche mese dal suo novantesimo compleanno, e i “coccodrilli” sono spuntati fuori come funghi in una foresta d’autunno. Purtroppo, come spesso accade, si son lette molte banalità, ma anche un consenso generale a definire B.B. King come la figura piu’ importante che il Blues abbia avuto. En passant, ci siamo dimenticati di Muddy Waters che ha avuto la sfortuna di morire già molti anni fa; a parti invertite, si sarebbe parlato di lui come il Bluesman piu’ grande. Le classifiche, specialmente tra grandi artisti, lasciano il tempo che trovano. Al di là dell’opportunità di aver avuto una vita professionale assai lunga – pi\ di mezzo secolo – il regno di B. B. King è stato lungo e praticamente incontrastato dalla morte di Muddy. Altri due “King” – Albert King e Freddy King – che hanno marcato profondamente generazioni di chitarristi sono scomparsi anticipatamente, il secondo già negl’anni 70. Ed è probabilmente Freddy King quello che ha lasciato tracce quasi immortali: i suoi assoli si ritrovano oggi, a pezzi, ma talvolta anche interi, copiati pari pari in tanti dischi di Blues. B.B. King è morto dunque amatissimo monarca solitario, adorato per un pugno di dischi che ne hanno segnato la geniale unicità, lo straordinario talento chitarristico, la capacità d’eccitare a dismisura le folle, come nella sua opera massima “Live at The Regal”, con il suo canto. Nessuno come lui ha potuto unire questi due talenti in modo cosi’ efficace almeno nel Blues, e a differenza di Albert e Freddy, B.B. non è copiabile. Per verità storica si potrebbe notare che i prodotti di un certo rilievo artistico sono andati rarefacendosi dagli anni 90 in poi: il Re cominciava a dispensare benedizioni e comparsate più per alimentare il mito e per fare della promozione al Blues che non per altri scopi. E in quest’ultimi 25 anni si è consolidata la sua grande popolarità che al di là delle capacità artistiche vere e proprie, era fondata su una grande simpatia e una grande comunicatività. Basta vederlo in una delle tante mega sessions con Clapton, Buddy Guy, Jimmy Vaughn, Robert Cray e compagnia bella, alzarsi dalla sedia e cantare “Rock me Baby” per comprendere che laddove il 99% dei bluesmen o presunti tali sarebbero sembrati monotoni o ridicoli, B. B. King trascinava le folle con la mossa di “shake my bones”. Di B.B. King va sottolineata anche l’estrema professionalità: a differenza di tanti altri artisti, si presentava sempre sobrio e sorridente, amabile e disponibile con grandi e piccini. La professionalità gli ha anche permesso di avere una carriera on-the-road lunghissima, migliaia e migliaia di concerti in tutto il mondo, alcuni anche “cult” come quello a Kinshasa nel 1974, in prefazione all’incontro di boxe (conosciuto come “the Ramble in the Jungle”) Muhammad Ali’ – George Foreman. Di casa alla Casa Bianca, invitato indistintamente da presidenti repubblicani e democratici, B.B. King fa ormai parte della storia della cultura americana come l’artista afro-americano di maggior rilievo. Per quanto riguarda la sua discografia, c’è un consenso generale sul fatto che non si possa fare a meno di “Live at The Regal”, seguito a ruota da “Live in Cook County Jail” ai quali aggiungerei “Completely Well” e “Live in Japan”, molto consigliato ai chitarristi. Resta la domanda finale, ribalda ma insinuante: il Blues è morto con B.B. King? Ovviamente no, ma la storia insegna che non tutte le generazioni – fortunatamente verrebbe da dire – sfornano geni. La monarchia è finita, resta la repubblica.
Luca Lupoli