Un pezzo di storia della musica italiana. Non c’è altro modo di definire un personaggio come Gianni Dall’Aglio, batterista che ha legato il suo nome a quello di Adriano Celentano, Lucio Battisti e tanti altri big della nostra canzone. Oltre ai Ribelli di cui è stato fondatore e per i quali ha scritto Pugni chiusi. Incontriamo Dall’Aglio a Firenze a Casa Martelli dove ha raccontato questa sua lunga militanza racchiusa nel libro Batti un colpo. Due metri quadrati di paradiso (Edizioni Gabrielli, 15 Euro), ovvero la porzione di palco che i batteristi occupano.
Quella di mettere nero su bianco una carriera importante è stata un’esigenza personale o una richiesta da parte di qualcuno?
“Da tempo Pablo Coniglio si era appassionato alla mia storia, ma la molla è stata una vicenda personale che ha toccato la salute di mia moglie. Allora mi sono detto che la vita mi aveva dato tanti momenti belli e che fosse giusto raccontarli, con lo stesso Coniglio che mi ha dato una mano. Un lavoro che è durato sette anni”.
Da questi due metri quadrati come è stato vedere l’esordio di Adriano Celentano? Le cronache raccontano che faceva impazzire le persone già durante le sue prime esibizioni…
«Era il 1959 al Parco Ravizza di Milano. Non sono milanese, venivo dalla provincia lombarda. Io ero abituato ad avere al massimo 100 spettatori nelle balere. Il repertorio era di tre pezzi veloci e tre lenti. Lì ce ne erano 5000 ed era il pubblico del Festival dell’Avanti dove oltre ad Adriano in programma c’erano Joe Sentieri, Wilma De Angelis (quindi due cantanti melodici) e Tony Dallara che allora non era ancora l’urlatore che sarebbe diventato in seguito. Sul palco con me c’erano Celentano e Gino Santercole alla chitarra. Mentre suonavo ho visto uno spettacolo incredibile c’era gente che sveniva in continuazione e che grazie al fatto che veniva sollevata dal resto del pubblico arrivava poi sul palco. Mi dicevo: questi sono morti. Ma poi compariva un uomo che sventolava un cartone e come per miracolo le persone si riprendevano tornando tra la folla a ballare e urlare».
Battisti invece prevalentemente era un musicista da studio. Da quanto si racconta era molto esigente…
«Era estremamente esigente, puntiglioso e molto attento alle sfumature. Lui era il primo ad arrivare in studio di registrazione alle 9 e aveva una visione a 360 gradi di ciò che doveva essere fatto, immergendosi nel lavoro fino alla fine della giornata. Aveva le idee chiarissime su come doveva essere realizzata la melodia: si metteva vicino al microfono e quando arrivavamo gli altri musicisti ed io, dopo i saluti ci diceva: “beccatevi questa” . Così iniziava a cantare il brano, esattamente come sarebbe poi stato nel disco. Noi dovevamo intuire i suoi pensieri per quanto riguarda la parte strumentale, lasciandoci pochi secondi per realizzarla. A quel punto entrava in scena Giampiero Reverberi per preparare gli arrangiamenti. Battisti era straordinario, aveva una grande passione per tutta la musica della Tamla Motown. E con lui ho anche avuto la fortuna di suonare il duetto con Mina in televisione».
Parliamo di un altro musicista straordinario, come è stato lavorare con Demetrio Stratos, uno che è passato dal beat a John Cage?
«Era il 1966 e cercavo una voce giusta per i Ribelli che stavo formando. Con il gruppo andammo al Santa Tecla di Milano: già quando scendemmo le scale sentivamo Gimme Some Lovin’ cantata in un modo pazzesco. Ci avviciniamo al palco dove c’era un trio con un organista e questo cantante che poi troviamo al bar dopo il primo set. Gli faccio una domanda in inglese: “Tranquillo, sono italiano, anzi greco, ma sono nato ad Alessandria d’Egitto. Insomma un casino che non ti sto a raccontare”. “Verresti con noi?” gli chiedo “Ascoltatemi anche nella seconda parte del concerto”. Alla fine eravamo sempre più convinti e dopo avere ripetuto la proposta (con noi c’era anche Natale Massara), disse che da quel momento era uno dei Ribelli. In cinque anni di lavoro non c’è stato mai uno screzio o una discussione. Mi diede dei consigli utili per completare al meglio Pugni Chiusi mentre la scrivevo. Anzi, aveva una tale voce che incise il brano a un metro di distanza dal microfono perché a meno di quella misura il suono andava in saturazione».
Dopo tanti anni, che importanza ha la tecnologia per quanto riguarda il suo strumento?
«E’ una domanda importante, anche perché sul mio piedistallo sono partito con tre pezzi essenziali. Certo la musica è cambiata. In studio di registrazione oggi c’è un click elettronico. Ma secondo me niente può creare l’emozione come un suono di batteria tradizionale. Pensate ai rallentati delle canzoni di Lucio Battisti che ne sono una parte importante. Lo riviviamo insieme a Massimo Luca quando ci esibiamo insieme. Quando ho suonato con Adriano all’Arena di Verona con l’orchestra e tanti altri musicisti, con tanto di cuffia e ritmi dettati dal click, ha un po’ rimpianto l’energia dei primi tempi con lui con l’improvvisazione e un impianto impensabile al giorno d’oggi».
Michele Manzotti
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