Massimo Pavin, 27 aprile 1957 – 30 novembre 2015
Difficile scrivere di un amico che se ne è andato. Di un compagno di lavoro, oltre a tutto. Di un grande musicista senza cadere nell’eccesso di elogio, così tipico di questi nostri tempi anche per coloro i quali in fondo lo meritano molto poco. Massimo Pavin lo merita, invece, l’elogio: era portatore di un’eredità lontana, quella del basso elettrico suonato con la funzione di sostenere, portare il ritmo ed il suo riff. Un modo antico, soppiantato negli anni da quello più evidente e sfrontato del moderno basso, quasi sempre solista, a cinque o sei corde, sempre in un’evidenza quasi forzata sia nei suoni che nel missaggio finale. Massimo invece era quel tipo di strumentista di cui quasi non ti accorgevi ma di cui, tipicamente, avvertivi subito l’assenza quando non c’era, perché mancava il suo sostegno, il suo riempire il pezzo di quello che al brano serviva. Un modo antico, ripeto, imparato dall’ascolto dei primi bassisti del blues elettrico e del soul, che poi all’occasione poteva riempirsi di note ed accenti funk, rock o altro. Pavin nella sua carriera ha lavorato portando la sua musica ed il suo strumento al servizio di tanti che magari con il blues non avevano nulla a che fare, gruppi o musicisti pop, reggae per cui, come si dice, faceva il turno in studio e che poi non avrebbe più rivisto. E poi ha lavorato con tanti gruppi (piccoli, medi, grandi) di quella strana avventura che è il blues italiano. In particolare, la sua storia è legata a doppio filo alle formazioni di cui ho fatto parte o che ho guidato. Il capitolo di questa storia che mi riguarda è durato dal 1980 ad oggi, trentacinque anni di collaborazione quasi totale con l’eccezione delle due pause (tra il 1990 ed il 1994 la prima e tra il 2003 ed il 2005 la seconda) durante le quali il suo posto fu occupato rispettivamente da Marco Messeri e Daniele Nesi, strumentisti di grande valore e conoscenze capaci di occupare la sua sedia senza farlo rimpiangere, pur nella grande differenza stilistica del loro suonare.
Ho incontrato Massimo per la prima volta in un giorno imprecisato del 1980, quando per la prima volta andai a Milano per suonare con la Mean Mistreater Chicago Blues Band di cui in quel momento conoscevo i soli Giancarlo Crea e Maurizio Simpsi, venuti già in visita nella nostra cantina di Torino: posta agli inizi della zona Sud della città, era il luogo di residenza di quella che fu la prima blues band cittadina, la Faboulous JB Band. Con Massimo fu da subito amicizia, lui mi ospitava quando dovevo fermarmi a Milano, e se non aveva posto lui una sistemazione da qualche suo amico non mancava mai: con lui passavo le giornate aspettando la partenza per il concerto, con lui andavo a scuola, a studiare musica per perfezionarci e migliorarci. La cosa andò avanti, e rivedendo il film rivedo tutte le tappe di questo viaggio: Mean Mistreater fino all’84, poi i Blues Shakers (l’arrivo in Italia di Arthur Miles causò la svolta soul del gruppo con cui nel 1985 ci ritrovammo a suonare nella puntata finale di Quelli dell Notte); l’86 ed il ricongiungimento con Giancarlo, che nel frattempo aveva iniziato a collaborare con un giovane chitarrista di Pistoia che noi avevamo già incontrato durante le convulse giornate dell’edizione 1984 del Festival: Nick Becattini. E così comincia l’avventura di Model T Boogie, gli anni fino all’89/90, lo Chicago Blues Festival, l’incidente automobilistico in Friuli, i primi concerti blues a Capo d’Orlando, tanti altri luoghi, persone, eventi. L’inizio della collaborazione con Phil Guy. Nel 1988 Massimo è nella prima formazione della Blues Gang, e resterà con me fino al 1990. Dopo alcuni anni di pausa per lui rientrerà a pieno titolo nella formazione nel 1994: da allora ad oggi ne è stato il titolare, se si eccettuano gli anni tra il 2003 ed il 2005, in cui per la produzione e la promozione di Searchin For Gold, pubblicato da Il Popolo del Blues, Ernesto De Pascale volle una formazione particolare fatta di musicisti con cui stava lavorando a diversi progetti in quel periodo (Daniele Nesi, Mario Marmugi e Francesco Bocciardi).
Di solito per accomiatarsi da una persona si usano frasi rituali (il tanto abusato “R.I.P.” oppure “che la terra ti sia lieve”, ad esempio): non è nel mio modo di essere, nel mio stile, e non ne ho neppure voglia. Quindi perdonate, non dirò null’altro se non che Massimo non c’è più e nulla può riportarlo a noi ed al suo pubblico: restano a ricordarlo il suo sorriso e la sua musica. Ciao, Basso.
Dario Lombardo